giovedì 26 novembre 2020
La legge 40 vieta la maternità surrogata e la sua pubblicità, impunita online. E nessuno riesce a farla rispettare
No agli spot liberi per l'utero in affitto

Ansa

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In Italia praticare e anche solo pubblicizzare la maternità surrogata è un reato. O almeno così dovrebbe essere, secondo la legge 40 del 2004. Eppure, proprio negli ultimi giorni due vicende dimostrano che così non è, mettendo in luce i ripetuti tentativi di annacquare il disposto di una norma più volte esaminata e ritenuta perfettamente conforme al nostro diritto da parte della Corte Costituzionale.

Partiamo dunque dalla legge, che – all’articolo 12, comma 6 – punisce penalmente «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità». Accade però che, digitando su Google o su altri motori di ricerca “utero in affitto” o “maternità surrogata” ai primi posti compaiano pubblicità di organizzazioni commerciali estere che erogano questi servizi. Nei giorni scorsi il problema è stato posto dal giurista Alberto Gambino, prorettore dell’Università europea di Roma, presidente sia dell’Accademia italiana del codice di Internet sia dell’associazione Scienza & Vita: «Risulta davvero incomprensibile e perciò gravissimo – così ha scritto in una nota divulgata la scorsa settimana – che non sia ancora intervenuta l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), peraltro appena rinnovata dalle Camere e dal presidente della Repubblica, la quale, in base alla legge del 2003 sui servizi sul web, ha il dovere- potere di intervenire perentoriamente, come ampiamente fatto in materia di violazioni online del copyright: forse il tema della dignità umana è per le autorità italiane meno importante del business dell’industria dell’entertainment?». Pronta la risposta dell’Autorità che, pur esprimendo «unanime preoccupazione per le pratiche sanitarie illegali» citate da Gambino, ha ammesso di non poter «intervenire senza investitura del legislatore » ritenendo piuttosto che, al momento, titolate ad agire siano solo le Procure.

A questo punto, però Gambino e Gigi De Paolo, presidente del Forum delle associazioni familiari, si sono rivolti direttamente al premier Conte: «Ci sembra paradossale – hanno scritto in una lettera inviata a Palazzo Chigi – che si ritenga incompetente in materia l’Autorità che vigila sulle comunicazioni e si occupa di pubblicità di gioco d’azzardo e di copyright, come pure di comunicazioni informative sanitarie». Nel frattempo il Centro studi Livatino con un saggio a firma dell’esperto in biodiritto Aldo Rocco Vitale ha dimostrato che l’Agcom avrebbe tutto il potere (e anche il dovere) di far cessare la consumazione di quello che in Italia è un reato. Sul tema viene richiamato il comma 536 dell’articolo 1 della legge 145/2018, secondo cui «le violazioni in ambito di comunicazione sanitaria – così si legge nella ricostruzione giuridica – siano da denunciare all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti sanzionatori di competenza». Non solo. L’articolo 5 del Decreto legislativo 70 del 2003 esplicitamente affida all’Agcom il «potere di sospendere la libera circolazione di un determinato servizio della società dell’informazione» quando riguarda tanto la «tutela dei minori» quanto «la violazione della dignità umana». A riconoscere che la surrogazione «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» è giunta pure la Corte Costituzionale, che proprio questo ha scritto nella sentenza 272 del 2017.

Così, innanzi a questo corto circuito giuridico, hanno preso posizione anche alcuni deputati Dem: in una nota a prima firma Alfredo Bazoli, capogruppo del Partito Democratico in Commissione Giustizia, gli onorevoli definiscono «intollerabile» l’atteggiamento esibito dall’Agcom e insistono affinché sia «perseguito con decisione» ogni «tentativo di aggirare il divieto» di pubblicità previsto dalla legge 40. Un divieto che sarebbe ancora più forte qualora – senza se e senza ma – tutti gli italiani che usufruiscono della surrogazione di maternità all’estero trovassero poi in patria la punizione prevista dal nostro ordinamento.

Proprio a questo mirano due proposte di legge depositate alla Camera (a firma Giorgia Meloni e Mara Carfagna), che tuttavia, secondo quanto riferisce Bazoli, è ancora ben lontana dall’essere discussa. Intanto innanzi alla Corte Costituzionale i sostenitori dell’utero in affitto stanno cercando di mettere in atto un nuovo tentativo di veder legalizzata di fatto questa pratica: due cittadini sposati secondo la legge del Canada e in Italia riconosciuti parti di un’unione civile hanno impugnato la decisione del sindaco di Verona che non gli ha concesso di essere riconosciuti entrambi 'padri' del bimbo ottenuto da utero in affitto all’estero. Per la prima volta si vorrebbe che la Corte ammettesse nel giudizio anche la madre gestazionale. L’udienza sarà il 27 gennaio, ma la Camera di consiglio per decidere su questa novità si terrà già il prossimo mercoledì.

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