Non è un testo esemplare quello della legge regionale «contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere», approvato sabato dall’Emilia Romagna dopo una maratona di due giorni e due notti. Ma nel clima culturale in cui siamo immersi e alla luce della legge massimalista densa di ideologia lgbt da cui si era partiti, sarebbe stato impensabile ipotizzare qualcosa di meglio.
Il passo avanti più significativo ottenuto dagli emendatori è rappresentato dall’articolo 12 che recita: «La regione non concede contributi ad associazioni... che nello svolgimento della propria attività realizzano, organizzano o pubblicizzano la surrogazione di maternità». Potrebbe sembrare una sottolineatura scontata, visto che l’utero in affitto è già comunque vietato dalla legge 40. Ma l’inserimento di questo passaggio in una legge regionale contro la discriminazione di genere, è qualcosa di più una di una scelta coraggiosa e controcorrente. È infatti anche un esplicito altolà ai fan più estremi e ideologici della cosiddetta “cultura gender” che puntano all'abbattimento di ogni divieto a proposito della maternità surrogata.
Da sabato queste associazioni non possono più pensare di ricevere contributi dalla Regione. Passo avanti importante anche perché nelle quattro leggi regionali già approvate negli anni scorsi (Lazio, Piemonte, Umbria e Toscana) purtroppo mancava un riferimento simile. E poi, che il Pd dell’Emilia Romagna prenda posizione su una pratica esecrabile come l’utero in affitto potrebbe significare qualcosa anche sul piano nazionale, visto che le posizioni sul tema del partito oggi guidato da Zingaretti sono apparse ondivaghe e spesso preoccupanti.
Utero in affitto a parte, non si può che accogliere favorevolmente anche il riferimento dell’articolo 3, con l’indicazione della necessità di assicurare «il diritto dovere dei genitori di educare la prole». E il rimando esplicito all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani che, ricordiamo, al punto 3 recita: «I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli». Ora, nel dibattito acceso in questi giorni dai fatti di Bibbiano, contrassegnati anche da una pesante ideologia statalista dell’educazione finalizzata all’emarginazione della famiglia naturale – come si evidenzia in molti passaggi dell’ordinanza del pm – il riferimento simbolico all’articolo 26 indica la volontà di una svolta proprio da parte del partito che aveva promosso l’egemonia di quella cultura. Non a caso “Articolo 26” è il nome scelto da una benemerita associazione di insegnanti e di genitori che si batte anche per contrapporre al dilagare della cosiddetta “cultura gender” nella scuola, proposte orientate secondo un’antropologia della differenza di genere. Altri passi in avanti, rispetto al testo iniziale, si possono individuare nell’eliminazione dell’ambiguo neologismo “omotransnegatività” e nel superamento del concetto di “discriminazione potenziale”.
Ma detto questo, nel testo rimangono punti tutt’altro che condivisibili. A cominciare dal «diritto all’autodeterminazione» (art.2) che, in riferimento all'identità e all'orientamento sessuale, rischia di apparire nulla più se non un proclama ideologico. Se omosessuali e transessuali chiedono giustamente rispetto e piena dignità alla luce di una condizione strutturale e costitutiva della personalità, impossibile – a meno di non cadere in contraddizione – invocare scelte di autodeterminazione. Qualche perplessità – visti i precedenti – anche per quelle «attività di formazione e aggiornamento del personale docente diretta a favorire inclusione sociale, superamento degli stereotipi discriminatori, prevenzione del bullismo, cyberbullismo motivato dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere» (art.3). Tutti propositi lodevoli, anzi urgenti, visti anche i troppi episodi di intolleranza che siamo costretti a registrare quasi quotidianamente.
Ma, per evitare scivolamenti verso derive pro gender, sarebbe stato forse necessario precisare i contenuti di quelle “attività di formazione” e magari indicare la necessità di un criterio equilibrato, almeno rispettoso dei diversi orientamenti culturali, visto che sul tema non esiste un pensiero univoco e, anche a livello scientifico, il dibattito è aperto. Ecco perché i tentativi di definizioni super partes contenuti nella legge rischiano di apparire un po’ pretenziosi e un po’ ambigui. Come quando al punto 3 dell’articolo 2 si tenta di spiegare la definizione di “stereotipi discriminatori” dicendo che sono «i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo».
Bene, allora spieghiamo, su un tema così spinoso e divisivo, quali potrebbero essere i pregiudizi. Esempio: sostenere che per il corretto e armonico sviluppo psicologico del bambino la differenza di genere dei genitori è un dato auspicabile, può configurarsi come pregiudizio lesivo, eccetera eccetera? La risposta, per qualcuno – non certo per noi – potrebbe non essere così scontata. Ma non potrà certo essere una legge regionale a determinarlo in via definitiva.