giovedì 3 novembre 2016
A Bergamo il pm Ruggeri incrimina due coniugi, assolti per l’alterazione di stato civile del bimbo nato in Ucraina, contestando la violazione della legge 40
«Utero in affitto all'estero, ma il reato nasce qui»
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La legge 40, tra le tante disposizioni, vieta la maternità surrogata. In Italia certamente. E oltreconfine, se a richiederla e darvi corso sono nostri connazionali? A confrontarsi con questa domanda sono sempre più tribunali, chiamati a giudicare la condotta di chi sempre più frequentemente elude il nostro ordinamento con l’artificio dell’espatrio. La tendenza, come più volte documentato su queste pagine, è quella di assolvere i «committenti» e riconoscere la validità della «filiazione» comprata all’estero. Frequentemente, addirittura, sono le stesse procure a chiedere l’archiviazione del caso, o a formulare i capi d’imputazione in modo poco convinto.

Ma ciò non accade a Bergamo, dove un pubblico ministero ha impugnato una sentenza d’assoluzione pronunciata a fine giugno ma depositata nei giorni scorsi. Le argomentazioni che censurano il provvedimento sono firmate da Letizia Ruggeri, il sostituto procuratore che ha condotto l’accusa nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, e contengono argomenti interessanti. I fatti oggetto del procedimento risalgono al 2013, quando due coniugi della Val Seriana – che ai tempi avevano lui 53 anni, lei 47 – ottengono in Ucraina un bimbo da madre surrogata, e subito rientrati in patria tentano di ottenere la trascrizione del certificato di nascita estero che li considera entrambi genitori (quando invece – secondo una certificazione peraltro non supportata da dati scientifici – il bimbo porta il corredo genetico solo del padre). Così, il primo procedimento verte proprio su questa condotta: «Si applica la reclusione da cinque a quindici anni – recita l’articolo 567 del codice penale, secondo comma – a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità».

Un’imputazione da cui il giudice, Battista Palestra, ha assolto i due coniugi. Eppure, scrive Ruggeri nel proprio atto d’appello, egli «non spiega per quali motivi il delitto di tentata alterazione di stato non sussisterebbe». Così, dopo essere andata al cuore della norma (che «tutela da un lato il preminente interesse dello Stato a escludere la formazione di un atto di nascita le cui risultanze siano in contrasto con la realtà, dall’altro l’interesse del neonato all’integrità dello stato di filiazione quale attributo della propria personalità»), il sostituto procuratore evidenzia tutti gli artifici attuati dai due per vedersi riconosciuti entrambi genitori anche in Italia: in particolare la dichiarazione orale di tale loro qualità (evidentemente falsa, almeno per la sedicente madre) presso i funzionari dell’ambasciata di Kiev (la capitale ucraina) e il tentativo di trascrivere in Italia il certificato estero che così li riteneva.

Posta questa premessa, e citando autorevole giurisprudenza, il magistrato dimostra l’alterazione di stato di minore ogniqualvolta vi sia «una registrazione anagrafica resa, grazie al falso, in termini distonici rispetto al naturale rapporto di procreazione» (Cassazione, sentenza 11 novembre 2015 depositata il 26 febbraio 2016, n. 8060). Su questa ricostruzione si pronuncerà nei prossimi mesi la Corte d’appello di Brescia, chiamata a decidere se confermare o annullare l’assoluzione orobica di primo grado.

Ma Ruggeri è andata oltre, e nei giorni scorsi – per la stessa vicenda – ha incriminato i coniugi di un altro reato: stavolta direttamente quello di maternità surrogata, previsto dalla legge 40. Il suo avviso alla coppia non «filosofeggia» sull’applicabilità o meno di tale norma nei confronti di cittadini all’estero. Semplicemente, rileva come parte del reato sia stata realizzata in patria: è il caso degli accordi preliminari con l’organizzazione ucraina per «assemblare» il bimbo, così come il tentativo di vedersi entrambi riconosciuti genitori dal proprio Comune di residenza. Di questo si era già accorto il giudice di primo grado, ma tali argomentazioni – essendo quello un procedimento per alterazione di stato – non avevano potuto tradursi in una sentenza di condanna. È probabile invece che avranno rilievo nel nuovo giudizio di primo grado attivato da Ruggeri, la cui sentenza toccherà in prima istanza al tribunale di Bergamo.

In tutta questa vicenda, però, a far riflettere è pure la sentenza già pronunciata da Palestra. Che proscioglie appellandosi al «diritto vivente ormai trionfale», e cioè alla decine di processi simili già finiti «a tarallucci e vino», ma che non si esime dal condannare (a parole) la situazione su cui è intervenuta. Ecco allora l’utero in affitto «che si regge su una situazione di bisogno (quello della madre surrogata, ndr), che non fa onore a nessuno», e che è costellato di pronunce assolutorie che «non sembrano francamente né decisive né insuperabili».

Un bel guazzabuglio, la cui soluzione sarebbe però altrettanto semplice: modificare poche parole della legge 40, affinché possa punire l’artificio dell’espatrio. Senza «se» e senza «ma».

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