(Foto di archivio, Ap)
Chi si aspettava una pronuncia 'storica', probabilmente è rimasto deluso. Certo, la sentenza 242/2019 resa pubblica venerdì scorso dalla Corte Costituzionale – che in alcuni casi circoscritti e tassativi ha ritenuto non punibile l’aiuto al suicidio, finora previsto sempre e comunque reato dall’articolo 580 del Codice penale – ha aperto uno squarcio nel nostro ordinamento. Ma è pur vero che le condizioni di questa depenalizzazione sono numerose e stringenti, e in più – in ogni singolo caso – devono intervenire simultaneamente. Sul lato pratico, dunque, l’aiuto al suicidio continuerà a essere reato nella quasi totalità dei casi, anche in situazioni cliniche ormai compromesse. Con la sola eccezione di situazioni in cui ricorrono contemporaneamente le seguenti circostanze.
1. Patologia irreversibile. Il paziente che chiede aiuto per morire deve essere affetto da una malattia irreversibile, iscritta come tale nella sua cartella clinica.
2. Cure palliative. La persona sofferente non solo deve essere stata adeguatamente informata ma già deve risultare concretamente inserita in un percorso di cure palliative.
3. Assistenza psicologica. Al malato deve essere già stata fornita – e non solo offerta – l’assistenza psicologica di cui necessita, in relazione alla sua patologia e al modo in cui egli la vive.
4. Intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche. Nonostante la sottoposizione del paziente alla terapia del dolore, in alternativa o in aggiunta a quella psicologica, il paziente deve rimanere affetto da sofferenze fisiche o mentale che egli non riesce a tollerare.
5. Trattamenti di sostegno vitale. Il malato deve già trovarsi sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, senza i quali non può continuare a vivere. Tali sono, per esempio, la ventilazione artificiale nonché l’idratazione e la nutrizione assistite.
6. Capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. La persona che desidera morire attraverso un processo medicalizzato deve essere nel pieno possesso delle sue facoltà, dimostrando di saper assumere – nonostante la fragilità delle sue condizioni psico-fisiche – decisioni libere e consapevoli.
7. Parere del Comitato etico. Il 'disco verde' per la morte a richiesta necessita anche del parere vincolante del Comitato etico territorialmente competente, già oggi chiamato a tutelare i diritti e i valori della persona in relazione alle sperimentazioni cliniche di medicinali, con particolare riguardo a quelle 'compassionevoli', attuate in mancanza di valide alternative terapeutiche.
8. Competenza del servizio sanitario nazionale. Tutta la procedura di morte deve essere stata presa in carico dal Servizio sanitario nazionale, che prima ha verificato l’esistenza simultanea di tutte queste condizioni, e poi materialmente dà corso agli atti suicidiari.
9. Medico disponibile. La sentenza non prevede nessun obbligo – in capo alle strutture ospedaliere, né tanto meno al personale sanitario – di accogliere la richiesta di aiuto nel suicidio. Anzi: il vigente Codice deontologico dei medici impedisce loro di provocare la morte, anche se questa è la volontà del paziente. Così, al contrario, rimarrà non perseguibile anche il sanitario che si sarà rifiutato di collaborare a dare la morte a una persona sofferente.
10. «Condizioni equivalenti». Finora, i paletti posti dalla Consulta sono assolutamente tassativi: basta che uno di essi non sia presente così come dettagliatamente previsto dalla Corte, e il medico che ha collaborato al suicidio di un suo paziente viene condannato così come è sempre finora avvenuto.
L’aiuto clinico per farsi dare la morte non è diventato un diritto. Aprendo comunque un varco, la Corte costituzionale ha voluto fissare precisi vincoli. E ha confermato il principio della tutela di chi è più vulnerabile
La sentenza, tuttavia, sta disciplinando i suicidi assistiti eventualmente accaduti dal giorno del suo deposito, venerdì scorso. Per gli atti precedenti – e solo per questi – i giudici costituzionali hanno ritenuto conforme al diritto non punire la persona che, pur non avendo osservato nel dettaglio tutte le circostanze poste nella sentenza, ha agito in modo da garantire le stesse tutele per cui sono state poste. E, in effetti, l’intera pronuncia della Consulta è permeata dalla preoccupazione di tutelare il «diritto alla vita – così si legge – soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio».
Suicidio che dunque, con questa sentenza, non diventa un atto per cui il singolo può esigere l’aiuto dello Stato, ma resta al contrario una scelta personale drammatica che, se attuata con l’altrui supporto, e sempre alla presenza di tutte le circostanze sopra presentate, cessa di produrre conseguenze penali. Invece – ed è sempre la Corte a spiegarlo – il vero «impegno assunto dallo Stato con la [...] legge n. 38 del 2010» è quello di erogare «le cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la [...] sofferenza »: un impegno che, allo stato dei fatti, ancor oggi è lungi dall’essere onorato. Ecco dunque la vera sfida della sentenza 242: garantire a tutti la dignità del vivere perché nessuno chieda di poter morire. © RIPRODUZIONE