Ha fatto scalpore il documento della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (Fnomceo), firmato dal Presidente Filippo Anelli, in cui si ribadisce che se si eliminassero le sanzioni per l’aiuto al suicidio, per i medici nulla cambierebbe: il Codice deontologico resterebbe tal quale. Cioè contrario a procurare la morte ai malati, pur se su loro richiesta e in qualsiasi condizione si trovino. Una posizione netta, tanto più apprezzabile vista l’inerzia parlamentare nell’attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale del prossimo settembre: sappiamo già che in assenza di iniziativa politica la Consulta depenalizzerà l’agevolazione al suicidio, rendendolo quindi lecito. Qualche parlamentare si è espresso a titolo personale, nel deserto silenzioso dei partiti: un vuoto in cui le dichiarazioni di Anelli sono risuonate con più forza.
Introdurre eutanasia o suicidio assistito, cioè chiedere al Servizio sanitario nazionale di includere la soppressione dei pazienti fra i propri compiti, pur se su richiesta degli stessi e a determinate condizioni, avrebbe conseguenze enormi nella professione medica. Ma la morte medicalmente assistita può essere considerata un atto medico a tutti gli effetti?
Di recente se lo sono chiesto anche i canadesi, per i quali la morte procurata è consentita dal 2016 (Medical Assistance in Dying, Maid, non distingue fra eutanasia e suicidio assistito), e che adesso stanno esaminando la possibilità di estendere anche ai minori. La legge stessa prevedeva due anni di tempo perché esperti riflettessero sull’assistenza a morire dei "minori maturi". Il report nazionale dedicato è «The State of Knowledge on Medical Assistance in Dying for Mature Minors», con considerazioni pro e contro, e senza indicazioni finali.
Un gruppo di studiosi si è espresso invece in un recente articolo del «Journal of Medical Ethics», «Medical Assistance in Dying at a pediatric hospital», un esempio efficace di cosa significhi cambiare un paradigma fondamentale come quello per cui i medici, finora, hanno avuto il compito di curare al meglio i propri pazienti, in scienza e coscienza, senza sopprimerli.
Gli autori convengono che nel fine vita l’obiettivo primario dei medici sia alleviare le sofferenze e facilitare la morte del paziente nei termini richiesti: la «Maid» rientra quindi fra gli atti medici consentiti, «praticamente ed eticamente equivalenti ad altri interventi medici» nel fine vita, come le cure palliative e l’interruzione dei sostegni vitali, a loro volta egualmente valutati. Sedare il dolore e sopprimere il malato, se richiesto, è parimenti consentito, purché si seguano procedure definite, esemplificate graficamente nell’articolo con flow charts, schemi sui percorsi decisionali da seguire. Alcuni dilemmi restano: se la Maid è un atto medico come altri, come informare il paziente di questa "opportunità"? In parole povere: se il malato non chiede di morire, come si può essere sicuri che sappia che può essere soppresso, su richiesta? È lecito per un medico "iniziare il discorso" sulla scelta di morire? E se il malato, minorenne, non vuole coinvolgere i familiari nella sua scelta?
L’articolo si chiude con il problema del discorso pubblico sulla Maid: il suggerimento è non seguire quanto fatto in occasione della legalizzazione dell’aborto, per cui si è sviluppata una forte resistenza, ma replicare il comportamento istituzionale tenuto nei confronti dell’epidemia di Hiv, quando si è destigmatizzata la malattia. Il "modello HIV" per la comunicazione sulla Maid, per ridurne lo stigma sociale e «rispettare i diritti del paziente».