Un guazzabuglio giuridico, oltre che etico: tale è la vicenda dei neonati da maternità surrogata “parcheggiati” in un hotel di Kiev perché chi li ha ordinati e pagati non può venirli a ritirare a causa del Covid. Ma di chi sono figli quei bimbi, alcuni dei quali sono stati commissionati da coppie italiane? Secondo il nostro Codice civile, madre è la donna che dimostra di aver partorito. Qui, invece, a vantare la maternità non è colei che ha partorito bensì la donna che ha saldato il conto di una clinica riproduttiva perché a sua volta pagasse – dopo averla reperita – una donna in cui impiantare l’embrione ottenuto con gli ovociti di un’altra donna ancora.
Per capirci: nella migliore delle ipotesi, l’unico legame tra la coppia e il bimbo voluto è costituita dal seme del padre. Nel peggiore, nemmeno quello. E, a volte, per non meglio precisate ragioni tecniche, non per scelta dei committenti. Fatto sta che, per la legge italiana, le donne che reclamano quei bimbi non potrebbero essere considerate madri. La legge ucraina prevede però altro: e cioè che il bimbo è figlio di chi l’ha ordinato, e ne assume la cittadinanza.
A patto tuttavia che i committenti dichiarino ciò all’ambasciata o al consolato italiani presso Paese dove è avvenuta la nascita.
Cosa attualmente impossibile, perché l’Italia ancora non ha accordato a questi “genitori d’intenzione” la deroga al divieto di spostamento in un altro Paese. Ma avrebbe un buon motivo per farlo? Stando alla legge, no: l’Italia vieta la maternità surrogata con un norma penale, e anche la Corte Costituzionale – più volte sollecitata in proposito, nel recente passato – ha confermato la piena rispondenza di questa norma alla nostra Carta fondamentale. Mettiamo però che l’autorizzazione allo spostamento arrivi: cosa accade una volta ottenuto un certificato di nascita ucraino, che menziona come genitori chi ha voluto il bimbo? Innanzitutto, quest’atto dovrebbe essere trascritto – cioè riconosciuto – nel Comune di residenza della coppia.