giovedì 21 novembre 2019
Invecchiamento, solitudine, emarginazione: le nuove «povertà sanitarie» chiedono risposte personali sul territorio. E fedeltà ai carismi
Più di venti relatori nei cinque giorni di formazione rivolta ai cappellani e operatori per attrezzarli ad affrontare dirompenti fenomeni sociali e bioetici Interlocutori della Chiesa italiana manager, medici e docenti universitari Il corso di Assisi per cappellani ospedalieri e incaricati diocesani di pastorale della salute

Più di venti relatori nei cinque giorni di formazione rivolta ai cappellani e operatori per attrezzarli ad affrontare dirompenti fenomeni sociali e bioetici Interlocutori della Chiesa italiana manager, medici e docenti universitari Il corso di Assisi per cappellani ospedalieri e incaricati diocesani di pastorale della salute

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Primo: studiare. Come i missionari che mentre si preparano a partire s’impegnano a imparare la lingua del Paese di destinazione. È la metafora cui don Massimo Angelelli fa ricorso per spiegare ai cappellani ospedalieri di nomina più recente quali sono le esigenze del loro incarico, spesso assimilato nell’immaginario popolare (e non solo) a dispensatori di sacramenti in corsia, e invece evoluto – con tutta la pastorale di settore – di pari passo con gli sviluppi della medicina, l’impatto delle tecnologie, la domanda crescente di senso davanti alla malattia e al dolore, la deflagrazione di sempre più complessi dilemmi bioetici, il proliferare di messaggi semplificatori e fuorvianti raccattati consultando il 'dottor Google'...

La pastorale sanitaria diventa così pastorale «della salute » nel senso più ampio, uscendo dai soli luoghi di cura per disperdersi anche nei luoghi di vita, ovunque si possano incontrare il malato, l’anziano, il disabile, ma anche la persona sola e sofferente, che attendono anche oggi – e semmai oggi più di prima – che un samaritano si accorga di loro là dove sono. Occorre 'uscire', guarda caso. Per questo l’Ufficio Cei per la Pastorale della salute insiste (certo non da oggi) sulla formazione, e con il suo direttore ricorda nel corso per le 'reclute' delle cappellanie ospedaliere e degli uffici diocesani – fino a domani alla Domus Pacis di Assisi – che i saperi da acquisire non sono più solo strettamente religiosi.

Nei cinque giorni della formazione 'di base' sfilano così oltre venti relatori, dalla comunicazione alla scienza, dal management sanitario alle istituzioni religiose, dai responsabili di enti locali ai medici specialisti. È il segno di un’altra 'uscita' della pastorale: quella verso il mondo della sanità tout court, come già al convegno nazionale di Caserta nel maggio scorso. Non desta stupore allora che ad aprire i contributi formativi venga chiamato Angelo Tanese, uno dei più attrezzati dirigenti della sanità pubblica italiana, da 6 anni direttore generale dell’Asl Roma 1 che col suo milione abbondante di utenti è la più corposa azienda sanitaria d’Europa. Fautore insieme ad Angelelli del progetto in fieri dell’'infermiere di comunità', Tanese ha spiegato evo- luzione e struttura del Servizio sanitario nazionale, dalle 670 Usl del 1980 – pletoriche e inefficienti – alle 228 Asl della riforma datata 1995, che con la sua impronta manageriale ha permesso di dare corpo all’universalità del sistema italiano, ancora oggi in grado di assicurare dati di eccellenza mondiale.

Ma la conquista anche di risultati gestionali imprevedibili (come l’attivo di bilancio nel Lazio dopo lo sprofondo rosso degli anni scorsi) non deve distogliere rispetto alle formidabili sfide sociali odierne, che Tanese snocciola così: «Il rapidissimo invecchiamento della popolazione, l’impoverimento delle relazioni, la crescita delle diseguaglianze, il fenomeno degli 'irraggiunti', cioè disabili, anziani e dementi privi di contatti con la sanità».

Ecco perché occorre attivare «reti di protezione » che includano «istituzioni sanitarie, comuni, associazioni, ma anche parrocchie » in quanto «luoghi nei quali è più elevata l’attenzione ai bisogni delle persone, in particolare gli ultimi». E la 'sanità cattolica'? A prenderla tutta insieme, ha numeri sufficienti a orientare l’intero sistema verso risposte realmente umane: come ha ricordato Paolo Favari, direttore generale dell’Hospice Villa Speranza di Roma, con le sue 1.717 strutture tra residenze per anziani e disabili (1.455), centri per la riabilitazione (134), hospice (24) e ospedali (104), per un totale di 97mila posti letto, le istituzioni sanitarie ispirate al Vangelo sono assai più che un pizzico di lievito (per tacere dei 1.102 cappellani).

Con cifre simili, Favari può incalzare: «Senza quella cattolica, la sanità italiana cosa sarebbe?», per poi però ricordare che «i nostri padri fondatori hanno voluto che le povertà fossero prese in carico da persone di sensibilità umana e di qualità professionale e scientifica d’alto livello. Un’eccellenza che rende ancora oggi molto credibile la nostra offerta e che non possiamo permetterci di sperperare». Il magistero della Chiesa 'ripassato' con padre Carmine Arice, superiore generale della congregazione del Cottolengo, è la garanzia che il muro portante tiene, preparando tutti gli operatori – pastorali e sanitari – per essere all’altezza di quella che definisce «la sfida più grande oggi: l’assenza di significato in una società che vede nella sofferenza e nella disabilità realtà da cui liberarsi e non da liberare».

È la strada della «vicinanza» e della «fraternità» quella che si apre per la missione delle istituzioni sanitarie cattoliche: lo vede con chiarezza Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, che insiste con ferma e documentata dolcezza sulla fedeltà ai carismi fondazionali: «Se si perdono – scandisce – si arriva al fallimento. Le nostre opere hanno la funzione di testimoniare l’amore di Dio, che non è assistenza o filantropia, ma alimenta il movente ideale e ci conduce all’incontro con l’altro ». A ben vedere, è questo il vero segreto. Oggi forse più di ieri.

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