Corte di cassazione (Ansa)
Un bimbo voluto da due donne sposate all'estero, concepito con fecondazione eterologa grazie agli ovociti di una delle due (e il seme di uno sconosciuto "donatore") e portato nel grembo dell’altra, che l’ha partorito, all'anagrafe italiana deve essere iscritto come figlio delle due donne e portarne i relativi cognomi.
L'ha deciso la Cassazione, rovesciando il precedente verdetto emesso dalla Corte d'appello di Venezia. E laddove i giudici lagunari avevano ritenuto la situazione «contraria all'ordine pubblico italiano», vale a dire inammissibile alla luce dei principi fondamentali su cui è costituita la nostra società, e inaccettabile alla luce del fatto che la giurisprudenza «era granitica nell'individuare, nella diversità di sesso tra i nubendi, un requisito indispensabile per l'esistenza del matrimonio civile», la Suprema Corte sostiene di aver considerato «l'interesse preminente del minore» mentre spiega che la contrarietà dell'atto estero all'ordine pubblico – fatto che a norma del diritto internazionale ne renderebbe impossibile il recepimento in Italia – non deve essere valutata solo sulla scorta della nostra Costituzione ma anche alla luce delle dichiarazioni Onu sui diritti dell'uomo e del fanciullo, oltre che in base a quanto dispongono le convenzioni internazionali. Queste, secondo la Cassazione, sanciscono per tutti indistintamente «il diritto di sposarsi e formare una famiglia», così come «il divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso».
Ecco il problema giuridico che ne consegue: è possibile riconoscere in Italia una pratica che il nostro Stato vieta – la legge 40
consente infatti la fecondazione assistita, inclusa quella eterologa, solo tra coppie formate da persone di sesso diverso – in quanto realizzata all'estero? Non ha dunque più senso di esistere questo divieto? La questione è sottile, ma chiara: sostenere che un particolare divieto normativo non sia contrario all'ordine pubblico non significa, a norma del diritto, affermare che non ha ragione
di esistere: semplicemente, ciò che la norma preclude non è ritenuto di fondamentale importanza. Conseguenza pratica: in Italia non lo si può fare, ma l'Italia non può fare a meno di riconoscere quella stessa cosa se attuata all'estero. Senza con ciò alcun obbligo che il divieto interno cada.
A questo punto, però, il discorso s'allarga con un ulteriore – e fondamentale – interrogativo: è condivisibile che la Suprema Corte ritenga secondaria una norma strettamente connessa all'esistenza, al nome e alla crescita di un bimbo? Non tutti gli ermellini devono pensarla così, se è vero che la stessa Cassazione, nel novembre del 2014, proprio nell'interesse del minore ha bloccato il riconoscimento di un'altra violazione della legge 40 commessa all'estero: la maternità surrogata, Vale a dire quel reato che, proprio con le stesse argomentazioni della sentenza depositata ieri, molte corti stanno sdoganando.