Su "Noi famiglia & vita" in edicola domenica con Avvenire l'annuncio di un nuovo network di specialisti, alternativo a quelli ora operanti, per la tutela di bambini e ragazzi allontanati
Né pericolose banalizzazioni né assurde epurazioni. Ma un’operazione accurata e saggia di integrazioni legislative e di buone prassi amministrative in grado di correggere e di modificare i punti più rischiosi e quelli ormai inadeguati, senza stravolgere un apparato di protezione che, se gestito in modo onesto e trasparente – come troppo spesso oggi non avviene – ha dimostrato di poter funzionare.
Ecco quello che appare necessario per il nostro sistema di tutela dei minori fuori famiglia di cui il caso Bibbiano ha mostrato tutte le fragilità e tutte le ombre. Ora, mentre il procedimento giudiziario prende forma con le richieste di rinvio a giudizio che dovrebbero essere formulate tra pochi giorni, è opportuno continuare l’approfondimento puntando i riflettori su un dato culturale finora rimasto un po’ in ombra.
Sulle pagine e su quelle di Avvenire abbiamo raccontato più volte esperienze e testimonianze, abbiamo dato voce alle vittime e offerto la possibilità agli addetti ai lavori e agli esperti dei vari ambiti di indicare i correttivi ritenuti più efficaci. Ricapitoliamo in estrema sintesi quanto emerso nei dieci punti a fondo pagina. Cambiamenti che ci appaiono ineludili per avviare quell’operazione trasparenza ormai fondamentale se l’obiettivo è davvero quello di garantire ai bambini in difficoltà e alle loro famiglie la certezza di uno Stato amico, capace di interventi saggi e prudenti.
Ma per comprendere il senso di questo impegno a favore di minori e famiglie è importante non fermarsi. E tentare di alzare lo sguardo dal fuoco incrociato di accuse e controaccuse, superando il confronto, troppe volte sterile e strumentale, tra avvocati e giudici, assistenti sociali e psicologi.
Esiste una chiave possibile per questa operazione, che è culturale prima ancora che giuridica o politica? Sì, per andare in profondità possiamo prendere a prestito – se il parallelo è lecito – la stessa logica che ha spinto Papa Francesco a scrivere Amoris laetitia, passare cioè dal principio del "male minore" a quello del "bene possibile". È un salto culturale fondamentale, un cambio di mentalità che dovrebbe essere assunto anche da coloro che si occupano della tutela dei bambini a livello giuridico, sociale, psicologico, relazionale. Certo, occorre cambiare registro e mettere in conto dosi raddoppiate di fatica e di impegno. E qui la domanda decisiva è una sola: siamo davvero convinti che ogni vita, e quindi ogni bambino, sia un tesoro insostituibile per la società intera? Che ogni esistenza, soprattutto la più fragile e indifesa, vada protetta, tutelata, accompagnata con tutte le attenzioni possibili? Che ogni famiglia vada aiutata ad assolvere i propri compiti educativi e di crescita dei figli anche in mezzo alle difficoltà più gravi, senza pretese di sostituzione da parte delle istituzioni, se non quando strettamente necessario proprio per la tutela di quei bambini?
Ecco, se ne siamo davvero convinti, non possiamo che sostenere la logica del "bene possibile", cioè dell’impegno che ci spinge a cogliere anche nelle situazioni più complesse di difficoltà familiari, quello spiraglio positivo che ci dice di non mollare, di continuare a scommettere sulle possibilità di risollevarsi da parte di quella madre e di quel padre. Se c’è un margine anche esile per restituire a una famiglia dissestata la possibilità di recuperare quel minimo indispensabile di progettualita e di impegno educativo, sarebbe grave non continuare a insistere, a provare, a cercare nuovi sbocchi.
Certo, non si tratta di auspicare tentativi ad oltranza, oltre ogni ragionevolezza, ma di valutare con serenità e con misura quali sono le strade obiettivamente percorribili per aiutare quel minore e, allo stesso tempo, sostenere la sua famiglia.
Non sempre è possibile, d’accordo. E in alcune situazioni occorre rassegnarsi alla scelta più dolorosa. Ma un conto è tentare tutte le strade possibili, proporre per esempio un affiancamento ai genitori, inventarsi un affido part time, o una delle tante forme di sostegno con il coinvolgimento della famiglia d’origine. In altre situazioni, quelle più drammatiche, si può provvedere all’allontanamento del genitore sospettato di maltrattamenti o addirittura abusi, proteggendo però, e quindi lasciando intatto, il rapporto tra il bambino e la madre.
Tante insomma le strade da verificare con un’attenta analisi psicosociale condotta da un pool di esperti – oggi prassi quasi inesistente – prima di procedere a uno sradicamento coercitivo del minore dalla sua famiglia. Esistono servizi sociali e procure minorili che hanno fatto e continuano a fare proprio questo, con un impegno lodevole che parte proprio dallo sforzo di salvaguardare, per quanto possibile e opportuno in quella data circostanza, il rapporto tra il minore e la sua famiglia d’origine. È la logica, appunto, del "bene possibile".
Ma nel nostro sistema di protezione dei bambini e dei ragazzi in situazione di fragilità e di abbandono non appare quella dominante. Da almeno trent’anni sembra vincente un altro punto di vista che considera fatica inutile lo sforzo di mettersi al fianco della famiglia che non ce la fa per tentare ogni via pur di non frantumare l’immagine dei genitori agli occhi di un bambino. Perché quella donna e quell’uomo rimangono genitori. Sempre. E in questo dato biologico c’è un bene etico a prescindere, un valore che tutte le istituzioni dovrebbero considerare tanto sacro e inviolabile ma meritare sforzi intelligenti per proteggerlo e salvaguardarlo.
Anche nei casi più drammatici c’è un bene, magari solo uno spiraglio di bene, un luce pallida, che è ingiusto e sbagliato annullare.
Non si tratta né di tracciare una lode spropositata del familismo immorale né di esaltare l’oltranzismo arcaico dei legami di sangue. Anche nelle relazioni familiari esistono connessioni che, quando spezzate dalla violenza o dall’abuso, è oggettivamente impossibile ripristinare. E insistere, partendo da un presupposto ideologico, significa talvolta non vedere situazioni di grave pregiudizio per i minori.
Ma un conto è ammettere l’impossibilità di custodire quel legame dopo aver tentato tutte le strade possibili per curarne e cauterizzarne le ferite. Un altro è far propria la logica del "male minore" e procedere ideologicamente all’estirpazione del rapporto, nella convinzione che la famiglia sia comunque una comunità in cui naturalmente sono predominanti germi impossibili da guarire.
Secondo questo approccio, quando esplodono conflittualità e dissidi profondi, quando la disgregazione del nucleo familiare appare irreversibile – ma spesso non lo è – quando il disagio dei figli si manifesta in modo tale da lasciar intravedere anche solo per deduzione l’ombra cupa dell’abuso, l’unica possibilità sembra quella di provvedere all’allontanamento dei minori.
Non viene detto con tale evidenza in alcun protocollo, ma così capita ed è capitato troppe volte.
Possibile che il copione di Bibbiano sia lo stesso giá visto a Sagliano Micca, a Finale Emilia, a Rigliano Flaminio, ad Avellino?
Possibile, certo perché la scuola di pensiero che ha ispirato le scelte di servizi sociali, psicologi e, in alcune circostanze, di giudici minorili scarsamente preparati, è stata contrassegnata da un indistinto ma tenace e pervasivo atteggiamento anti-famiglia.
In molte occasioni gli specialisti che hanno operato queste scelte erano – o ancora sono – affiliati alla rete Cismai. In altre occasioni l’appartenenza è servita soltanto ad ottenere credibilità per l’assegnazione di incarichi importanti. Ma qui non vogliamo demonizzare nessuna sigla e neppure aprire processi alle associazioni e ai singoli terapeuti che hanno scelto di consociarsi al Coordimento dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso. Le responsabilità, quando penalmente accertate, sono sempre personali. Anzi, siamo convinti che la maggior parte degli psicologi e dei terapeuti che danno vita a quella rete, sia professionalmente irreprensibile e umanamente in buona fede.
Ma il dubbio rimane. Così, come la convinzione che per il nostro sistema di protezione dei minori, sia arrivato il momento di liberarsi da qualsivoglia dittatura culturale, per aprirsi a visioni diverse, più disponibili verso la possibilità di recuperare il positivo che esiste in ogni famiglia, in ogni fragilità relazionale.
Forse è arrivato il momento di dare vita a nuove aggregazioni di esperti e di professionisti disponibili a rinnovare, su basi scientifiche e non ideologiche, il panorama di questo puzzle dove ormai appare impossibile collocare le tesserine al posto giusto. L’abuso esiste, ma non ogni situazione di difficoltà può essere letta con il prisma deformato di chi si ostina a cogliere in ogni segnale di difficoltà le tracce di una violenza sessuale. Forse è il caso di voltare pagina. Forse è il caso di riconoscere e praticare, come ci insegna papa Francesco, la bellezza del "bene possibile". E, quasi sempre nei rapporti tra genitori e figli, è davvero possibile. Basta volerlo con cuore aperto e sguardo libero da pregiudizi.
I DIECI NODI APERTI
1) L’articolo 403
Perché lasciare solo ai servizi sociali il potere di decidere gli allontanamenti d’urgenza dei minori (art. 403 del codice civile), senza prevedere una verifica parallela dei Tribunali? Oggi la segnalazione può essere differita "a discrezione".
2) Temi per le udienze
Oggi non esiste l’obbligo di fissare un tempo ragionevole per la convocazione della prima udienza dopo un allontanamento. Spesso passano mesi. Nel penale ci sono solo 48 ore di tempo. I minori non meritano la stessa sollecitudine?
3) Dati confusi
Manca un registro nazionale dei minori fuori famiglia. Esistono i dati delle 29 procure minorili che però spesso non registrano tempestivamente i minori rientrati in famiglia dopo un periodo in comunità. E le informazioni arrivano da tre fonti diverse (e danno risultati diversi).
4) Cooperative senza controlli
La legge Turco (328/2000) permette ai Comuni al di sotto dei 15mila abitanti (l’80% del totale) di affidarsi a servizi sociali consorziati. Così un ruolo delicatissimo, visto che le relazioni dei servizi diventano atti ufficiali che pesano nelle sentenze, viene svolto di fatto senza controlli.
5) Difesa dei genitori
Oggi nei processi che riguardano la sorte dei minori non è previsto il contraddittorio paretitetico per i genitori prima dell’avvio del procedimento. Capita così che di fronte a una relazione dei servizi sociali considerata contestabile, il parere della famiglia d’origine sia messo in secondo piano.
6) Ascolto dei minori
Non esistono linee guida approvate ufficialmente dal ministero per l’ascolto del minore. Così ogni terapeuta è autorizzato di fatto a scegliere il criterio preferito, senza alcun controllo preventivo del tribunale dei minori.
7) Garanzie risarcitorie
Oggi per i magistrati che operano nell’ambito minorile non è prevista alcuna garanzia risarcitoria. Introdurre l’accertamento delle responsabilità, con controlli documentati da un’autorità terza, potrebbe elevare la qualità professionale.
8) Via i tribunali?
Perché non sostituire il Tribunale per i minorenni con un Tribunale della famiglia su cui far convergere tutti i procedimenti in cui sono coinvolti genitori e figli (per esempio le cause di separazione quando ci sono di mezzo figli contesi)?
9) Quale revisione?
Perché non mettere a punto un criterio di "riparazione" quando, dopo anni, si riconosce l’ingiustizia di una condanna inflitta a un genitore a cui erano stati tolti i figli (caso "Diavoli della Bassa")? Come ricucire il dramma agli occhi dei minori?
10) Terapie per la famiglia
Quando un minore viene collocato in comunità, chi si prende cura della fragilità della famiglia a cui è stato sottratto? Oggi non c’è nessun obbligo, neppure da parte dei servizi, di proporre progetti o terapie di sostegno per genitori in difficoltà. Una grave carenza.