Il dibattito in atto sulle spinose questioni del fine vita paga una sorta di pregiudizio che inserisce gli interlocutori in uno schieramento contrapposto a un altro. Un clima di questo genere complica la possibilità di coalizzare le forze positive volte a sostenere le persone ammalate, oltre che i familiari, così come gli stessi operatori dell’intera équipe curante. Non si tratta di "avere ragione", di "fare la conta di chi la pensa come me", quanto piuttosto intuire insieme quali potrebbero essere gli ulteriori passi da compiersi per il bene delle persone che si confrontano ogni giorno con situazioni estreme.
Comprendiamo bene tutti che è argomento assolutamente complesso, e diviene perlomeno presuntuoso l’atteggiamento di chi presume di avere ragione in forza dei numeri della maggioranza, pensando di risolvere in questo modo il problema. Fosse così non avremmo bisogno di riflessioni e approfondimenti ulteriori; la forza degli attuali strumenti di comunicazione può dirci dove si pone la maggioranza dei cittadini. La realtà ci ricorda peraltro che la situazione è molto più complessa e variegata. Ricordo una signora ammalata che rifletteva in questo modo: «Tutti si interrogano sulla mia condizione fisica, ma io che sto morendo mi chiedo che senso ha questo mondo e la mia vita».
Le parole di Martini e il rispetto perduto
C’è una grande responsabilità dei media e degli addetti ai lavori. Già il cardinale Carlo Maria Martini, ormai qualche decennio fa, richiamava i giornalisti sulla necessità, per il bene dell’intera collettività, di non fermarsi al semplice dato superficiale ma di impegnarsi per scendere nel profondo e cogliere le ulteriori istanze che si possono presentare in modo variegato e di non immediata comprensione, anche se comporta impegno e fatica. L’invito era, tra gli altri, a non alimentare lo scontro, abbassare sempre i toni. In questo caso per un motivo molto semplice: si parla di persone ammalate che vivono una stagione particolare e faticosa. Tutti ricordiamo e sappiamo che all’interno degli ospedali – una volta era così anche all’interno di tutte le chiese – vi era un clima di rispettoso silenzio in grado di farci riconoscere di trovarci immersi in una realtà particolare e per certi versi misteriosa, in una realtà "sacra". È un po’ l’esperienza di Mosè di fronte al roveto ardente: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». Da qui il più grande rispetto e profondo affetto qualunque sia l’esito della scelta e del percorso che si intraprende. Vicino al letto della persona ammalata, i "dogmi", da una parte come dall’altra, non possono essere il criterio in grado di renderci realmente vicini e quindi pienamente solidali con il paziente stesso e i familiari insieme agli stessi operatori; viene chiesto ben altro. La morte chiede l’ascolto della elaborazione del paziente e quella dei familiari, che hanno spesso tratti differenziali e conflittuali.
2021: la prima cattedra italiana di medicina palliativa
Proprio in questa direzione si è orientato il recente convegno ospitato dall’aula magna della Statale di Milano, con esperti della materia che hanno comunicato le proprie personali esperienze frutto di quanto raccolto dalla frequentazione quotidiana dei reparti di degenza. Con una immediata considerazione: come mai un evento così particolare ha trovato spazio quasi esclusivamente sui media di orientamento cattolico. C’era il coinvolgimento dell’Università Statale di Milano, l’Istituto nazionale dei Tumori di Milano, la Pontificia Accademia per la Vita. Questo dato registra l’oggettiva difficoltà di far sapere e conoscere cosa realmente si muove nella nostra società.
Sottolineo un aspetto che ritengo significativo e che aiuta a comprendere la fatica generale davanti a situazioni tanto complesse quali quelle del fine vita. Il business è entrato a pieno titolo anche nel mondo sanitario, questo è ormai un dato scontato. I medici si trovano, loro malgrado, sempre più ridotti a semplici esecutori di logiche decise altrove. Con grande rispetto per il prezioso servizio reso dai curanti, ormai sempre più ridotti a semplici operai di una catena di montaggio. Due studi pubblicati su riviste scientifiche – da Jennifer Temel nel 2010 sul The New England Journal of Medicine e da Joseph Greer nel 2016 sul Journal of Palliative Medicine – analizzano il problema della sopravvivenza dei pazienti e della loro qualità nel "fine vita". È emerso che nelle fasi terminali dell’esistenza, grazie al coinvolgimento precoce del team di cure palliative e l’utilizzo al meglio delle terapie di supporto rispetto al solo trattamento chemioterapico, si è registrata non solo una riduzione dei sintomi depressivi e un miglioramento della qualità di vita ma anche un risparmio in termini economici, oltre 100 dollari al giorno.
In questo scenario, soprattutto con l’approvazione di farmaci innovativi ad altissimo costo in campo oncologico, andrà posta grande attenzione al rapporto rischi-benefici di queste cure, che spesso sono applicate anche in fase preterminale a scapito della stessa qualità di vita. Si evidenzia inoltre una prospettiva in cui le cure palliative risultano poco convenienti per il sistema produttivo, ma di notevole beneficio per le persone ammalate.
Formare personale sanitario specializzato
Questo dato aiuta forse meglio a comprendere la scarsa volontà di attuare le indicazioni già presenti a livello legislativo che sostengono la necessità dell’utilizzo delle cure palliative, non solo nelle ultime fasi dell’esistenza e per i soli malati oncologici. Questa specifica attenzione dovrebbe iniziare con un lavoro multidisciplinare, tipico delle cure palliative, sin dagli esordi di una malattia importante o all’avvicinarsi della stagione dell’invecchiamento. Quadro ulteriore da non dimenticare è la formazione adeguata sul tema delle cure palliative pediatriche.
La grave mancanza sino a oggi – con la sola eccezione di quanto realizzato in sinergia tra Statale di Milano e Istituto nazionale dei Tumori di Milano – è la non presenza in ambito accademico di professori incaricati di svolgere questo servizio e preparare i futuri medici, infermieri, l’intera équipe a svolgere questo compito. La beffa sarebbe trovare professori incaricati di svolgere questi compiti abitualmente lontani dai reparti di degenza. In questo come in tutti i settori occorrono professionisti realmente impegnati sul campo, che portano anche sulle cattedre universitarie quanto apprendono ogni giorno, condividendo la propria esperienza con i pazienti. Ciò è chiesto anche rispetto all’insegnamento dell’attenzione alla dimensione spirituale, fortemente richiamata proprio delle cure palliative.
Quando queste attenzioni saranno realizzate saremo meglio in grado di comprendere l’importanza di accompagnare chi nel tempo di malattia si confronta con il senso e significato della propria esistenza, ricordando che «non siamo al mondo per avere la salute ma desideriamo la salute per realizzare un progetto di vita». Questo è il compito che ci spetta.