Tutto il dibattito altalenante sulla vita dormiente, e di conseguenza sull’eutanasia, si barcamena tra toni alti e bassi, tra indifferenza e paure, tra slanci emotivi (pochi) e resistenze moralistiche (molte). Un procedere a singhiozzo che sa molto di politicamente corretto.Stiamo parlando di drammi, di storie difficili imbevute di sacrifici e di dolori, di misteri e di confusioni. Per questo credo che il primo atteggiamento doveroso sia la
standing ovation: tutti in piedi a riverire con massimo rispetto le persone di cui si farà cenno. Entriamo con prudenza nel cuore delle cose che contano, quando la debolezza umana tocca le corde più sensibili dei pensieri. Qui parliamo del confine tra vita e morte e il peso delle parole non è più lo stesso di prima.La «Giornata dei risvegli» di domani non solo celebra coloro che hanno aperto gli occhi anche quando le speranze si erano disperse ma fa ricadere l’attenzione su quelle vite fragili, sospese tra qui e l’Oltre, in una stasi così difficilmente comprensibile con il nostro sguardo affaccendato. Cosa fare? E soprattutto: di chi stiamo parlando? Vite vere? Vite minori o al termine della loro corsa? Sono certo che la chiave di lettura di una così delicata questione sia il criterio della "prossimità", che non è una trovata intellettuale ma il frutto naturale di un’esperienza personale e comunitaria. La prossimità ci obbliga a coniugare il verbo "stare", impegnandoci in una relazione autentica di appartenenza a qualcun altro. La prossimità non è altro che un atto di restituzione con cui riconosciamo il vero volto di chi abbiamo accanto; non più un soggetto-prototipo utile per disquisire su un caso etico ma una persona, un nome vero, una storia, sua e di chi gli sta vicino. Il primo interrogativo che mi sono posto quando ho preso in braccio il mio bambino, adottato all’età di 4 anni, tutti trascorsi su un lettino di ospedale perché affetto da malattie neurologiche gravissime che lasciavano presagire un Oltre molto vicino era se quella che stavo stringendo fosse ancora vita o no. Il criterio della prossimità c’impone di guardare la vita dormiente come una vita viva, debolissima ma viva. Non si tratta più di una speculazione accademica, che tratta situazioni-campione con le opportune distanze fisiche e culturali, ma di prossimità: perché ho preso in braccio la debolezza, ne ho incrociato lo sguardo, mi ha commosso nelle viscere e ne ho sentito tutta la sua gravità. Ho sentito il respiro flebile della mia creatura, la sua stanchezza. E così, con un breve incrocio di sguardi, io e la mia sposa abbiamo detto di sì e l’abbiamo portato a casa. Non era più soltanto un paziente in rianimazione ma, superata la soglia di casa, ci è diventato subito figlio: debolissimo, ma figlio. Anche lui ha riempito la nostra grande famiglia, già piena di storie difficili, di racconti raccapriccianti, di bambini spenti dall’abbandono, dalla malattia e dall’abuso. Non solo. Quante anime spente, schiacciate dalla depressione, dal disturbo psichiatrico della personalità hanno tentato di chiudere la loro vita perché convinti, dalla violenza altrui, che non valevano nulla. Io le ho incontrate, abitano sotto il mio stesso tetto. A mani nude io e mia moglie abbiamo strappato dall’estremo gesto persone che si erano abbandonate al suicidio per spegnere una vita già troppo dormiente, al punto da essere intesa come inutile. Abbiamo passato notti intere a consolare, a cercare motivi validi per continuare a esistere, a piangere con chi ci piangeva davanti. Quanti sacrifici e rinunce per curare, con la precarietà del ruolo genitoriale, bambini in preda a crisi febbrili improvvise, a forme epilettiche farmaco-resistenti, a guardare i valori dei macchinari salva-vita per tutta la notte.La prossimità contiene in sé la "pretesa della vita", l’estrema necessità di vedere una bellezza laddove molti parlano di ribrezzo, di trovare il senso delle cose laddove sembra che nulla abbia più valore. Con il criterio della prossimità non puoi trattenerti dal prendere in braccio la debolezza umana e ci si ritrova a non avere più argomentazioni valide per rinunciare alla vita, debolissima, ma vita. Ma quale grande meraviglia pensare che la vita di uno possa essere spesa per prendersi cura della vita di un altro! Come possiamo pensare di rinunciare a una visione così nobile e alta dell’esistenza umana in nome di una libertà personale che arriva fino a consentire a un minore di chiedere legittimamente di togliersi la vita, com’è accaduto in Belgio?La pretesa dell’eutanasia di qualcuno non è altro che il fallimento della mia vita perché decreta il mio rifiuto a quella prossimità che avrebbe restituito alla vita debole la forza necessaria per riconoscersi belli. Deboli, ma belli. Mi rammarico nel riconoscere dentro il nostro vivere quotidiano i sintomi innegabili di una società necrofila, convinta che la scommessa e la sfida della vita debba soccombere al desiderio della morte. La mia vita si consuma in una famiglia di 15 persone, e ogni sera con la mia sposa mettiamo a letto figli che altri hanno scartato, con l’immane compito e l’ardita speranza di aiutarli a essere innamorati della loro storia, anche se spesso hanno incrociato la violenza, l’abuso e la malattia. La vita di mio figlio non si è mai svegliata: ha vissuto sempre in uno stato di semi-coscienza, debolissimo, incapace di sorridere e di piangere, uno stato vegetativo incomprensibile se non avessi usato il criterio della prossimità. Ma la sua vita, pur nel dolore e nel silenzio, era perfetta. E io me ne sono innamorato. La vita grida più forte della morte. La vita non è mai una condanna, anche nel dolore e nella malattia quando posso contare sulla forza di mi resta vicino. La vita dei forti sostiene la stanchezza dei deboli.Sperando di non disperdere il valore di questa giornata, mi concedo un pensiero diverso. Credo che ci sia una vita dormiente di cui aspettiamo il risveglio con grande trepidazione: è la vita di grandi intellettuali e illustri politici, di combattivi militanti dell’ideologia che hanno già chiuso gli occhi alla vita credendo che la libertà di farsi morire sia un diritto e non un’offesa. V’imploriamo! Aprite gli occhi, svegliatevi e credete che il dolore che si consuma nel silenzio di alcune stanze, dove tutto sembra essere spento, in realtà si celebra una meraviglia inaudita, intrisa di speranze e di silenzi, ma soprattutto di compassione. La compassione muore con chi muore, si coinvolge nella vita altrui senza distanze intellettuali, sa attendere e sperare e in nome della prossimità dice sempre che il presente, anche se debole e dormiente, è pur sempre bellezza perché è vita. Così la compassione ci fa vivere con chi vive. Debole, ma vive.
*autore del libro «L’eutanasia di Dio. Il cuore di un padre di fronte alla debolezza del figlio» (Sempre Comunicazione, 2016)