Davvero la tecnologia ha fatto della maternità una realtà «controversa» mettendo il diritto «con le spalle al muro»? Lo sconcerto suscitato dalla motivazione della sentenza con cui il giudice del Tribunale di Milano ha assolto due non più giovani genitori che, per coronare il desiderio di un figlio, si sono rivolti alla pratica dell’utero in affitto in India s’è sommato ieri alla sorpresa per l’abrogazione del divieto di fecondazione eterologa da parte della Corte Costituzionale nel nome della volontà assoluta di diventare papà e mamma, fosse pure con gameti altrui e dunque aggiungendo uno o due genitori genetici ai due legali. Per questo, notava il giudice milanese, anche il diritto di famiglia «è stato investito dalla dissociazione tra il dato naturale della procreazione e la contrattualizzazione delle forme di procreazione», e la maternità tecnologica diviene nuovo parametro antropologico. Un dato amplificato dal verdetto della Consulta, che ha legalizzato una pratica estranea alla genitorialità umana e che per la prima in Italia volta nega la certezza della filiazione. Ma dire che oggi la genitorialità diventa un fatto «tecnologico» è «un’affermazione gratuita, non dimostrata, che parte dal presupposto che la tecnica prevalga a priori su qualunque altra dimensione», commenta Fiorenzo Facchini, antropologo. «Se si dà corso a questa interpretazione si innesca un principio pericolosissimo dove la tecnica diventa fonte dei valori. La tecnica deve essere subordinata ai valori, soprattutto quando si parla di tecnologie applicate alla generazione umana. Sovvertire questo dato è una follia». Un’interpretazione della maternità quale quella che traspare dalle sentenze della Consulta e del Tribunale di Milano rischia di alterare un legame basilare: «La tecnologia non può sovvertire un dato di ordine psico-biologico, cioè il rapporto tra un figlio e i suoi genitori. Questa non è scienza ma un’estensione del potere dell’uomo che deve invece rimanere subordinato ai valori». Va dunque ribadito che non tutto quello che è tecnicamente possibile è anche praticabile: «La tecnologia, che è applicazione della tecnica, non può in alcun modo essere fonte di valori. Purtroppo, quando l’ideologia prevale, il buon senso viene superato». Anche per Mariolina Ceriotti Migliarese, psicologa, è in corso un mutamento antropologico in cui si cerca di svuotare il concetto di maternità e di genitorialità: «La cosa più agghiacciante è la scomparsa della dimensione simbolica dell’esistenza per passare a una dimensione meramente funzionale. Molti dei concetti che fanno capo ai termini madre, padre e figlio vanno al di là della funzione pescando nella dimensione inconscia. Ebbene: si vuole ragionare come se l’inconscio non esistesse più». Eppure è proprio quando lo si nega che l’inconscio parla più forte. «Tra i codici ineludibili, quelli di maternità, paternità e filiazione sono fondamentali e la domanda sulle proprie origini è inevitabile. E i genitori non si rendono conto di quanto questo percorso sarà pesante». Basta pensare alle adozioni, dove la figura del genitore naturale vive nei figli e nei genitori adottivi, spiega Ceriotti Migliarese: «Nei figli, perché vogliono ricostruire da dove vengono cercando i genitori naturali; nei genitori, perché la domanda di chi sia davvero quel figlio si acuisce nel tempo, soprattutto quando qualcosa non funziona nella relazione. La domanda sulle origini viene fuori con forza». L’avanzamento di questa idea a colpi di sentenze richiede una vigorosa reazione sul piano culturale, raccomanda Paola Ricci Sindoni, ordinario di filosofia morale: «Si fa largo un certo "pilatismo" giuridico che finisce per appoggiarsi su considerazioni tratte da altri contesti per dar spazio al nichilismo. Nella sentenza di Milano si parla di "definizione" della maternità. Ma c’è bisogno di una definizione? Non fa parte del senso comune? Chi mette in dubbio la maternità?». Capovolgere i valori porta con sé inevitabili derive: «Se tutto viene messo in dubbio, vuol dire che ogni esperienza reale è soggetta al succedersi delle teorie: quelle, ad esempio, che definiscono l’essere vivente al pari dei suoi sostituti tecno-scientifici, in questo caso la potenza della tecnica che sostituisce il concepimento naturale, trasferendolo in un corpo di un’altra». Attenzione allora a parlare di allargamento dei diritti, perché «in fondo a questo baratro antropologico non c’è purtroppo un altro tipo di antropologia ma c’è il niente – conclude Ricci Sindoni –, né alcun orizzonte di riferimento perché i valori in sé non hanno più senso e ci si affida solo al mercato delle scelte, dominate dalla volontà individuale».