Per rendere realmente esigibili i «Livelli essenziali di assistenza» e affidare agli ospedali solo le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative occorre «rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base». La riforma della sanità per il neo-presidente del Consiglio Mario Draghi si basa su un punto chiave: la «casa come principale luogo di cura», espressione usata nelle dichiarazioni programmatiche in Parlamento. Ma per ripartire dalla prossimità, come ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza, è necessario «un cambio di prospettiva nelle cure, preoccupandosi di far arrivare le stesse nella vita quotidiana dei malati».
La situazione dalla quale partire è chiara ai medici ma anche ai familiari dei pazienti che si ritrovano a casa alle prese con le difficoltà di una assistenza spesso carente. «La medicina del territorio sconta sicuramente tutta una serie di scelte negative sotto il profilo del disinvestimento in favore delle strutture ospedaliere. E questo ha sbilanciato l’asse della cura alle persone», sottolinea Alessandro Chiarini, presidente di Confad, il Coordinamento nazionale famiglie con disabilità. Eppure tentativi di avvicinare la cura alle persone ce ne sono stati: «Sarebbe necessario dare corso con grande sollecitudine a realizzare tutta la rete delle Usca che oggi sono largamente incomplete e creare la rete dell’infermiere di territorio o di famiglia. Si tratta di provvedimenti che sono stati già oggetto di approvazione legislativa».
Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie, sa bene che il fulcro dell’assistenza domiciliare sono i 45mila medici di famiglia sparsi in tutta Italia, che però spesso sono privi di risorse: «Bisogna rendere la medicina generale più forte, ma occorre fornire tutti gli strumenti che sono mancati in questi ultimi anni. La medicina generale è stata sfavorita rispetto a una visione che privilegiava l’ospedale e lasciata povera di risorse, di quegli investimenti che ne potevano farne veramente la struttura portante della sanità moderna».
Ecco perché serve ripartire con iniziative concrete, come ricorda Giada Lonati, direttore sanitario di Vidas, che segue pazienti oncologici. «Per l’assistenza domiciliare integrata – dice – vanno maturate conoscenze specifiche per la presa in carico. È necessario implementare percorsi formativi appropriati, e poi pensare ai reali bisogni delle persone: quindi stare più vicini ai pazienti, alle loro famiglie, e dare strumenti perché siano in grado di utilizzare le tecnologie». Le strutture del Servizio sanitario nazionale provano a organizzarsi. La telemedicina e l’assistenza a domicilio, spiega però Angelo Tanese, direttore generale dell’Asl Roma 1, sono possibili «se investiamo maggiormente nella presa in carico delle persone attraverso centrali operative sul territorio, che agiscono in modo integrato con i medici di medicina generale e i servizi sociali, con un sistema di gestione delle informazioni totalmente condiviso. Curarsi “da casa” significa anche consentire alle persone di accedere ai servizi in modo più semplice e rapido. Ad esempio, prenotare una visita, una vaccinazione, scegliere il proprio medico di famiglia, ottenere un’informazione o pagare un ticket. Anche questo aiuta le persone e le famiglie ad avere un servizio migliore e un rapporto meno burocratico con il Servizio sanitario».
I pazienti hanno bisogno di risposte concrete. «Lavorare in rete vuol dire mettere insieme tanti servizi che tengano conto sia degli aspetti clinici che della fragilità sociale – sottolinea Stefania Bastianello, direttore tecnico di Aisla onlus –. Molti dei nostri pazienti diventano fragili perché la rete familiare non tiene più. Serve una forte integrazione tra sistema sanitario e sociale, un potenziamento del territorio anche con strutture in grado di accogliere pazienti che necessitano di un’intensità minore, a bassa sanitarizzazione, a prevalente sostegno sociale, che sfruttino alcuni aspetti come quelli legati all’utilizzo di tutte le tecnologie. Abbiamo capito l’importanza di utilizzare strumenti che ci consentono di vedere i pazienti a distanza».
Ma occorre superare diverse criticità. «Per parlare davvero di telemedicina – dice Annalisa Scopinaro, presidente della Federazione Malattie Rare – bisogna fare in modo che la casa della persona sia attrezzata con gli ausili e i device minimi per permettere un effettivo controllo dello stato di salute. La digital health, di cui in Italia si parla troppo poco, sarebbe di grande supporto in questo percorso. È necessario poi che la legge sull’infermiere di comunità sia realmente applicata, in modo da consentire alcuni controlli anche al di fuori della struttura ospedaliera». Per il futuro, insomma, «immaginiamo che la sanità diventi sempre più personalizzata e tecnologicamente avanzata, la burocrazia ridotta al minimo, e che siano gli uffici a passarsi i dati. Il fascicolo sanitario elettronico deve essere implementato in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale e fruibile anche all’estero. Servono in sostanza contatti sistematizzati fra i diversi interlocutori della salute».