La cifra fa impressione: dall’inizio del 2016 alla fine del mese di novembre nel Canton Ticino (350mila abitanti) 51 persone hanno scelto di morire attraverso la pratica del suicidio assistito. Di queste, ben i 2/3 provenivano dall’Italia. Il turismo del suicidio assistito, denunciato nei giorni scorsi da un’inchiesta del Giornale del Popolo, ha assunto dunque grosse proporzioni e inizia (finalmente) a preoccupare le autorità elvetiche, che ora tentano di correre ai ripari.
Il suicidio assistito in Svizzera non è disciplinato da leggi. Diversamente, finirebbe per essere regolamentato e dunque istituzionalizzato, come fu per la distribuzione controllata dell’eroina. I paletti contro questa pratica mortale sono nel Codice penale agli articoli 114 e 115. Il primo dice che «chiunque, per motivi onorevoli, segnatamente per pietà, cagiona la morte di una persona a sua seria e insistente richiesta, è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria». Il secondo stabilisce che «chiunque per motivi egoistici istiga qualcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria».
Ma all’interno di questa legislazione riescono a muoversi alcune associazioni (in primis Exit Svizzera e più di recente Liberty Life Exit, legata a Exit Italia) che forniscono prestazioni al limite della legalità. Tenuto conto della vicinanza tra l’Italia e il Canton Ticino, negli ultimi due anni si è assistito a un’esplosione di casi di cittadini italiani che valicano il confine per morire. Anche perché alcune associazioni (è il caso di Liberty Life) utilizzano la strategia di non stabilirsi in un’unica sede ma cambiano di frequente appartamenti nei quali viene consegnata la dose letale. Si dice che negli ultimi tempi il suicidio assistito sia praticato addirittura in camere d’albergo.
Per ogni caso di suicidio assistito l’autorità (agenti della polizia cantonale) deve rilasciare il certificato di morte e verificare le procedure. Proprio la scorsa settimana si è tenuto un summit a Bellinzona tra magistratura, polizia, ufficio del medico cantonale assieme ai due ministri responsabili del dossier: Paolo Beltraminelli (Sanità) e Norman Gobbi (Polizia). Questo incontro dimostra almeno due cose: che l’elevato numero di casi viene considerato inaccettabile, e che potrebbero essere state rilevate procedure illegali. Per esempio, si è venuti a conoscenza di alcune farmacie che preparano la dose letale e che poi la vendono a queste associazioni a prezzi molto più elevati rispetto al valore di mercato. Ciò potrebbe comportare una violazione della legge, e dunque lo stesso farmacista potrebbe essere punibile. La volontà è ora di effettuare controlli molto più stretti e severi.
L’aiuto al suicidio consiste nel procurare la sostanza letale al paziente che vuole porre fine alla propria vita. Quest’ultimo poi ingerisce la sostanza senza aiuto esterno. La procedura dovrebbe vedere la presenza di un medico o di personale sanitario. Ma questo avviene? È davvero assente il motivo "egoistico" (quindi una pratica che procura lauti guadagni) da tutta la procedura che porta alla morte? Ed è il paziente che assume la dose letale, oppure questa gli viene somministrata? Sono le domande su cui l’autorità è chiamata a indagare.
Già più di 50 casi, due terzi dei quali di cittadini italiani. Le autorità ticinesi scoprono che il territorio appena oltre confine sta diventando meta di chi cerca la morte per suicidio assistito.
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