Stiamo vivendo una nuova fase pandemica, dopo la grande onda d’urto del coronavirus, percorrendo la via d’uscita – si spera – verso la normalità: una normalità nuova, però, non un ritorno al tempo ante–Covid 19. Stiamo sperimentando infatti quello che avevamo intuito fin dai primi giorni: quando la vita ricomincia da dove l’abbiamo fermata, sospendendola, niente è più come prima. Il contagio del Sars CoV2 è stato un mega catalizzatore di processi che erano al loro inizio, ha proiettato in rete la nostra vita quotidiana a partire dallo smart working e dalle lezioni a distanza in tutti i gradi di istruzione, realizzando una sorta di digitalizzazione delle relazioni umane, mentre ci ha costretti a una vita “fisicamente distanziata”. La velocità forzata e la diffusione planetaria con cui tutto questo è avvenuto – poche settimane, e nel mondo intero – ha lasciato un’impronta di irreversibilità nel sistema, un’eredità che si sta consolidando nel nuovo quotidiano.
Con il coronavirus è diventato improvvisamente centrale il bene comune. Non si era mai smesso di parlarne, ma nel mondo ante Covid a regnare incontrastata era l’ autodeterminazione individuale, il primo di tutti i “nuovi diritti”, quelli che qualcuno aveva definito “insaziabili”: diritto al figlio, diritto a non averne o ad averne sani, diritto a morire, diritto a scegliere il genere di appartenenza, diritto alla privacy, e l’elenco potrebbe continuare quasi in modo virale (per restare in argomento). E’ lunga la lista dei diritti esigibili generati dalla rivendicazione della personale, totale autonomia, intesa come possibilità di decidere completamente di sé a prescindere da ogni relazione. Ma con il contagio si è immediatamente imposto in tutta la sua gravità il problema della tutela della salute pubblica, cioè dell’intera società, mediante la sorveglianza sanitaria delle comunità territoriali: la bioetica ci aveva abituati a pensare in termini di diritti individuali del singolo paziente e del suo rapporto con il medico, mentre l’etica della salute pubblica ci pone davanti un “paziente collettivo” i cui interessi possono collidere con quelli del singolo cittadino che pure quella comunità abita.
La pandemia ci ha costretti a prendere atto della ineludibile dipendenza reciproca degli esseri umani: malattie trasmissibili come Covid 19 colpiscono le persone in relazione fra loro, si diffondono tanto più quanto maggiore è la prossimità di vita, e le catene del contagio da sempre si interrompono con l’antichissimo metodo dell’isolamento fisico di ciascun malato e di intere comunità.
Per questo le epidemie sono un fenomeno sociale insieme a un fatto clinico e sanitario; affrontarle solo dal punto di vista biologico e medico è riduttivo e non consente di cogliere il fenomeno nella sua complessità. Le stesse misure sanitarie rischiano di non essere efficaci come potrebbero se non si considera il contesto sociale e valoriale. Da questo punto di vista è emblematico l’uso delle app per il tracciamento dei contatti a rischio contagio: è sicuramente una questione tecnologica con problematiche legate alla privacy, ma limitarsi a questo è fuorviante rispetto alle implicazioni che ha l’introduzione di una tecnologia così intrusiva e pervasiva della vita personale nei sistemi sanitari di tutto il mondo; così come non ha senso paragonare le soluzioni tecnologiche adottate per contenere l’epidemia nei diversi Paesi se non si guarda a cultura, sistemi sanitari e assetto politico. Va stabilito come valutare il rapporto efficacia/rischi di un supporto tecnologico che si inserisce nelle dinamiche delle istituzioni e del loro rapporto con i cittadini, e che si fonda su un tessuto connettivo tecnologico mondiale messo a disposizione da due colossi privati come Google e Apple, promotori di un recente, storico accordo: non si tratta appena di una tecnica promettente per ottimizzare il controllo del contagio, siamo di fronte a un potenziale cambio di paradigma su cui è necessario riflettere.
Del bene comune è tornata prepotentemente un elemento centrale la famiglia, che mai come al tempo del lockdown è apparsa l’ultimo approdo sicuro, «un rifugio in un mondo senza cuore», per dirla con Cristopher Lasch, e questa sua rinnovata centralità ha fatto risaltare la sorte dolorosa e crudele di tanti anziani istituzionalizzati, che in famiglia non vivevano più, sui quali il nuovo virus si è accanito.
L’Italia ha respinto tentazioni di sapore eugenetico, che hanno trovato invece maggior consenso in altri Paesi col negare a priori l’accesso alle terapie intensive al di sopra di certe soglie di età; al tempo stesso sembriamo diventati indifferenti alle decine di morti che ogni giorno continuano in questa coda pandemica. E viene da chiedersi: come sarebbe stata questa nuova normalità se a morire non fossero stati soprattutto anziani con una salute già compromessa, ma giovani in salute, come accaduto in pandemie del passato?