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La signora Graziella, che dal suo lettino di malata di Sla ascolta la conversazione sulle difficoltà in cui si dibattono le famiglie che vivono questa realtà, fa un gesto eloquente per far capire che «si attaccano al tram» quando chiediamo come possano farcela quelle che non hanno un caregiver, una persona dedicata al suo accudimento, per giunta esperta come sua figlia Stefania Piscopo, infermiera di professione. Ma è un tram che sferraglia e va lentissimo, lungo i binari di una burocrazia sempre più assurda. «Servono anche 7-8 mesi per ottenere un certificato, veniamo rimpallati da un ufficio all’altro. Magari ci sono addetti competenti e sensibili, ma ne troviamo anche tanti che non sanno cosa fare. E noi aspettiamo. Adesso ad esempio siamo alle prese con la certificazione di disabilità gravissima, ma le graduatorie sono trimestrali e non sappiamo neppure se siamo entrati, altrimenti se ne parlerà il prossimo anno», prende a raccontare Stefania che da un anno assiste la madre a Magenta, alle porte di Milano, «e io, proprio perché ho fatto l’infermiera, magari so anche come muovermi, ma tante famiglie rischiano di affondare. Per non parlare poi dei problemi contingenti di chi deve lasciare un lavoro per assistere un congiunto, avendo anche una famiglia sua. E poi i costi: l’assistenza diretta a mia madre la faccio io, aiutata da mio padre e mio fratello, ma chi non ha queste "fortune" materiali, come fa?». E qui torna il tram della signora Graziella, anche perché, riprende Stefania, «spesso devi passare giornate intere da un ufficio all’altro solo per riempire moduli e domande. Ma se è vero che la Sla è inguaribile, prendersi cura dei malati dovrebbe diventare la priorità».
Tutti temi che Stefania Piscopo ripercorre nel suo libro, in uscita a novembre, dal titolo Mi manca la tua voce, una sorta di "manuale di sopravvivenza".
Perché è anche di sopravvivenza, oltre che dei mille lacci imposti dalla burocrazia, che si è costretti a parlare alla vigilia della Giornata nazionale sulla Sla, che Aisla celebra domenica 15 settembre in 150 piazze italiane. Problemi che affronta ogni giorno Stefania Bastianello, che per Aisla è responsabile nazionale della formazione e del centro di ascolto, e che viene da una vicenda di ex caregiver: il marito è morto nel 2012, ad appena 50 anni, dopo 19 di malattia, «ed erano tempi diversi, in cui c’era meno attenzione e sensibilità sulla Sla. Questo mi ha spinto a impegnarmi per gli altri, io che come ingegnere venivo da tutt’altro mondo».
La Bastianello segue anche il progetto "Operazione sollievo", sempre per Aisla: «Laddove riceviamo segnalazioni di disservizi istituzionali cerchiamo di intervenire, perché queste persone non possono certo attendere quello che comunque è un loro diritto. E allora, ad esempio, noleggiamo un comunicatore oculare, peraltro molto costoso, in caso di processi lunghi tra domanda, autorizzazione ed erogazione. Come pure cerchiamo di dare un aiuto per gli assistenti familiari, che a me non piace chiamare badanti: il caregiver ha lasciato il lavoro, magari in una famiglia che ha un mutuo, ma mica può assistere un malato 24 ore su 24. Talvolta però si sente dire che i fondi per l’autosufficienza non sono più... sufficienti, e allora cerchiamo di coprire le spese. Un intervento temporaneo, perché poi dovrebbe provvedere l’istituzione, ma il condizionale è sempre d’obbligo. Noi cerchiamo di pungolare Asl e Regioni, se questo colloquio esiste. Eppure si parla di diritti, che dovrebbero essere tali sempre e ovunque, da Bolzano a Palermo», conclude Bastianello che ora si sta occupando anche dell’approccio palliativo, «l’unico in grado di dare sollievo al malato. Ma anche in questo l’Italia è molto indietro».
Un sollievo, anche psicologico, che quindi spesso bisogna trovare da soli: «Se a supportarci e a sopportarci non avessimo tanti amici, ora diventati fratelli e sorelle, non sapremmo come fare, perché le istituzioni latitano e anche la sanità, pure qui a Milano dove viviamo, inizia a perdere qualche colpo», esordisce Maria Giovanna Celano, che da circa 4 anni è accanto al marito Rocco Stragapede: «Ho dovuto lasciare il mio lavoro da baby sitter per stare con Rocco. Certo, l’ho fatto con il cuore, ma non siamo robot e neppure santi e tante volte ci sentiamo abbandonati dalle istituzioni. La burocrazia ci fa diventare scemi, passiamo da un ufficio all’altro e spesso troviamo persone che non sanno niente. Per fortuna, con tutta una rete di amici, non siamo mai del tutto soli», aggiunge Maria Giovanna includendo anche suo figlio Gabriele, che intanto si è appena laureato in Scienze della comunicazione, con una tesi proprio sulla Sla. «Credo che l’idea gli sia venuta quando tutti e tre abbiamo saputo della malattia di Rocco e insieme abbiamo deciso di affrontarla. Mio figlio ha pensato che scrivere una tesi fosse l’unico modo per farsi ascoltare ma anche per ascoltare gli altri, quelli che vivono lo stesso problema. È andato in giro a fare interviste e ricerche, ha incontrato persone, conosciuto luoghi e strutture». E la solita, immancabile burocrazia.