giovedì 20 marzo 2014
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Il presidente Napolitano ha sollecitato un «sereno e approfondito confronto di idee» sulle scelte di fine vita. Raccogliendo questa sollecitazione sottopongo alcune riflessioni, cercando di evitare il rischio di contrapposizioni ideologiche.La locuzione «scelte di fine vita» si basa sulla convinzione, condivisibile, che non esiste più oggi, nel mondo occidentale, la «morte naturale», ma che tutte le morti sono l’esito di un percorso «decisionale». Nel terzo mondo, dove la morte è ancora «naturale» e non è possibile «decidere» se prendere un antibiotico oppure no, l’età media è naturalmente molto bassa. Il tema è se, nel percorso finale di malattie inguaribili evolutive, sia possibile identificare una via proporzionata che eviti sia l’abbandono che l’accanimento terapeutico. In genere ledecisioni di fine vita hanno a tema scelte di «limitazione» terapeutica. Un secondo aspetto è se queste scelte possano essere condotte in modo condiviso e all’interno di una relazione terapeutica fra paziente, familiari e curanti o se vadano lasciate alla totale autodeterminazione del paziente.
Non tutte le scelte di fine vita sono uguali. Gli autori olandesi che monitorano le scelte di fine vita in quel Paese rilevano la frequenza di eutanasia, suicidio assistito, interruzione della vita senza esplicita richiesta del paziente, alleviazione intensificata dei sintomi, non inizio o sospensione di trattamenti prolunganti la vita (includendo tra essi il "supporto vitale" di nutrizione o idratazione artificiali), sedazione profonda continua. Già da questo breve elenco emerge che non tutte le scelte di fine vita sono equivalenti, in termini di intenzione, procedura e risultato. Inoltre, secondo alcuni vi è una sostanziale discriminanza tra le pratiche di «abbreviazione attiva del processo di morte» e quelle di «astensione» da interventi terapeutici, mentre per altri quelle pratiche finalizzate a condurre alla morte del paziente dovrebbero essere «etichettate» nello stesso modo, sia che si tratti di interventi attivi che di astensioni terapeutiche.
Un altro punto oggetto di confronto è se tutti coloro che dialogano sulle scelte di fine vita ne hanno la stessa concezione. Recenti documenti di società scientifiche invitano i medici a identificare i malati che si avvicinano alla fine della vita per favorire una precoce «pianificazione delle cure». Per tale identificazione viene suggerito l’uso di alcuni indicatori comuni alle diverse patologie di deterioramento delle condizioni generali, di indicatori specifici correlati alle singole patologie, della cosiddetta «domanda sorprendente» («saresti sorpreso se questo malato morisse entro...?»). L’approccio di proporzionalità delle cure è condivisibile in quanto tiene conto delle singole situazioni cliniche. Una situazione clinica è, per esempio, quella di malati affetti da patologie evolutive in fase di terminalità. Un rischio è l’applicazione delle stesse azioni in condizioni cliniche diverse, «allargando» non il metodo ma lo specifico atteggiamento terapeutico da tenere nel fine vita di patologie inguaribili evolutive in fase terminale a malati con patologie evolutive in fase avanzata ma non di terminalità, malati con patologie croniche inguaribili non evolutive e non terminali, o addirittura a pazienti affetti da grandi disabilità.
In situazioni di inguaribilità la perdita di un significato della propria vita e la solitudine condizionano la più lucida autodeterminazione. In una «cultura dello scarto» c’è il rischio che emerga l’«obbligo volontario» a farsi da parte. Ben Mattlin, giornalista affetto da una grave malattia neuromuscolare congenita, esprimendo il suo parere contrario all’introduzione del suicidio assistito in Massachusetts, scriveva: «Sono un liberal, quindi dovrei sostenere il suicidio assistito, ma come paziente disabile non posso. Ho vissuto vicino alla morte da così tanto tempo che so bene quanto sia sottile la linea di confine tra la libera scelta e la coercizione, come sia facile che qualcuno, anche inavvertitamente, ti faccia sentire senza valore e senza speranza, così da esercitare una pressione, leggera ma decisa, perché tu sia "ragionevole", per "sgravare gli altri dal peso", per "lasciar perdere". I medici si sentono autorizzati a dare giudizi su di me e a esprimere le loro opinioni. Credo che sia così perché io rappresento un fallimento per la loro professione, e questo è miope. Io sono di più della mia diagnosi e della mia prognosi. Questa non è che una delle tante forze di coercizione. Un’altra comprende un certo sguardo esausto negli occhi di un tuo caro, o il modo in cui infermieri o amici sospirano in tua presenza. Tutto questo può causare una pericolosa nuvola di depressione anche nel più ottimista, situazione che i medici potrebbero male interpretare poiché per loro risulta perfettamente logica. E per certi versi è razionale, data la scarsità di alternative. Se nessuno ti vuole alla festa perché dovresti restare? Chi sceglie il suicidio non lo fa in un ambiente neutrale. Siamo inesorabilmente condizionati dall’ambiente che ci circonda».
All’approssimarsi del reale «fine vita» la delicatezza delle singole situazioni merita pianificazione anticipata e condivisa delle cure (diversa da un’astratta direttiva anticipata), approccio individualizzato e rispettoso delle preferenze del paziente all’interno di una reale relazione di cura, e grande diffusione delle cure palliative. Così accade che negli hospice italiani, accanto a battesimi e matrimoni, inizino a raccogliersi le disdette di viaggi per il suicidio assistito nella civilissima Svizzera.
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