giovedì 18 febbraio 2021
Uno studio dell'Università di Ghent pubblicato da quella di Oxford dimostra che vincoli e garanzie della legge del 2002 non sono più davvero operativi. Una deriva inevitabile quando si apre la breccia
Eutanasia senza più controlli, il Belgio si arrende?
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È possibile legalizzare l’eutanasia all’interno di un quadro di garanzie che escludano abusi e consentano l’accesso solo per alcune condizioni ben precisate? A leggere un recente lavoro sulla rivista scientifica The Journal of Medicine and Philosophy, della Oxford University Press, la risposta è no. A firmarlo sono tre esperti della Ghent University, in Belgio – Kasper Raus, Bert Vanderhaegen e Sigrid Sterckx – che commentano l’applicazione della legge sull’eutanasia nel loro Paese (varata nel 2002) sottolineandone i limiti con estrema preoccupazione: sono carenze nelle misure che avrebbero dovuto salvaguardare ma che alla prova dei fatti si stanno dimostrando inadeguate, se non controproducenti.

Gli autori iniziano la loro disamina con il trend crescente – e sottoriportato – dell’eutanasia in Belgio, rilevando che di per sé l’applicazione della legge a una varietà sempre più ampia di condizioni non implica automaticamente un problema etico: non sono cioè contrari all’eutanasia ma si chiedono se nel concreto la norma sia osservata correttamente. E la descrizione dello stato di fatto è impietosa. A cominciare dai criteri che dovrebbero essere contemporaneamente rispettati perché sia consentito l’accesso alla morte procurata, ognuno dei quali problematico nella sua applicazione. Come può un medico valutare affidabilmente la volontarietà della richiesta di morte, in mancanza di procedure standard di riferimento? La legge prevede inoltre che la sofferenza vissuta sia causata da una malattia o un fatto accidentale: condizione che non include, quindi, la morte procurata per "stanchezza di vivere" o per un tormento legato a una disabilità fisica congenita. Eppure in entrambi i casi l’eutanasia è stata applicata.

Importante requisito per l’accesso è poi la presenza di una sofferenza costante, insopportabile e non alleviabile. È evidente che la non tollerabilità può essere solo valutata soggettivamente dal paziente, ma allo stesso tempo che compete invece al medico stabilire la possibilità di lenirla. E se il malato rifiuta i trattamenti che possono controllare il dolore, può avere accesso ugualmente all’eutanasia? In altre parole, i criteri riguardanti la sofferenza contrastano fra loro se il malato rifiuta le cure per mitigarla.

Il tutto si complica se chi chiede di morire non ha una patologia precisa ma una condizione di "polipatologia", estremamente ambigua specie nell’età avanzata quando, ad esempio, è facile avere insieme problemi di pressione, vista, udito, artrite e via dicendo: sono condizioni tipiche della vecchiaia dietro le quali si può tranquillamente celare la richiesta di eutanasia per "stanchezza di vivere", esclusa invece dalla norma. Gli autori ricordano che il 71% di chi chiede di morire per polipatologie ha circa 80 anni, e che questo è il secondo gruppo di persone che ricorre alla morte su richiesta, dopo i malati di cancro: una categoria a rischio di eutanasie improprie, quindi. Ci sono poi problemi sul ruolo della seconda opinione, oltre quella del medico curante: è prevista ma non vincolante, e quindi l’eutanasia può essere effettuata anche se il secondo dottore consultato è contrario, come già avvenuto. In aggiunta, può essere espressa anche da un medico non specialista. L’intero quadro diventa infine molto più complesso se le sofferenze sono di tipo psichico, quando addirittura ci sono i margini per evitare di coinvolgere psichiatri.

Ma a destare maggiore perplessità è il ruolo della Commissione che a posteriori dovrebbe verificare la legalità delle eutanasie eseguite: gli autori analizzano scrupolosamente i vari passaggi previsti, con risultati a dir poco sconcertanti. Emerge un organismo che, anziché fungere da filtro fra i medici che fanno eutanasie e la magistratura, ha agito piuttosto da scudo, sostituendosi al Parlamento e facendosi interprete indebito della legge, ad esempio distinguendo arbitrariamente condizioni essenziali e non per l’accesso alla morte procurata, ma soprattutto grazie a meccanismi di funzionamento interni per cui è quasi impossibile rivolgersi alla magistratura. In 18 anni di attuazione della legge, infatti, solo un caso è stato segnalato alle autorità giudiziarie, dopo che un programma televisivo australiano si era occupato di una eutanasia effettuata in Belgio in evidente violazione delle regole. Gli autori ricordano anche le polemiche dimissioni nel 2018 dalla Commissione del neurologo Ludo Vanopdenbosch: favorevole all’eutanasia, tanto da averne praticate di persona, ma deciso a denunciare la mancanza di obiettività e indipendenza della Commissione.

Limiti strutturali, insomma: la legge è di fatto inapplicabile perché i "paletti" previsti vengono superati dalla prassi. Una volta ammesso, il principio grazie al quale in alcuni casi si può uccidere legalmente esce dal Parlamento e si sviluppa per via procedurale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.

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