Gaby Olthuis aveva 47 anni, madre di due bambini. Una donna intelligente, bella, con un avviato studio di psicoterapeuta. Alcuni mesi fa apparve nel programma televisivo
Altijd Wat, dell’emittente olandese Ncrv, raccontando la sua storia di sofferenza. «Tutto cominciò nel 2011, quando nacque il mio secondo bambino, con degli strani ronzii alle orecchie che peggioravano di giorno in giorno. Si trattava di un disturbo uditivo chiamato acufene. In seguito la diagnosi divenne di iperacusia (patologia derivata da un’alterazione cerebrale nell’elaborazione dei suoni). Sentivo dei rumori terribili, suoni acuti simili allo stridio dei freni di un treno, o di un trapano, di oggetti metallici che cadono: 24 ore su 24. Non avevo pace. Mi dissero che non sarei guarita. Mi chiusi in casa; uscire per me era diventato uno strazio. Disperata, domandai al mio medico curante di praticarmi l’eutanasia. La risposta fu: non se ne parla proprio. Riprovai con un altro dottore, ma anche lui chiuse bruscamente il discorso con un rifiuto. Adesso ho chiesto aiuto alla Levenseindekliniek di Den Haag (la Clinica per la fine della vita) dove hanno accolto la mia richiesta. Sono qui perchè vorrei che la gente mi comprendesse e non giudicasse».
Tre settimane dopo l’intervista Gaby ha lasciato questo mondo: nella clinica di Den Haag. Ma non è stata capita come desiderava. È ovvio. Come si può accettare che si attui l’eutanasia a una giovane madre di due bambini affetta da un disturbo (sia pur invalidante), all’udito? Ricordiamo che la legge olandese l’ammette solo in caso di malattia allo stadio terminale, incontrollabile, insopportabile. La Commissione regionale per l’eutanasia (Rte), ha aperto un’inchiesta, domandando alla clinica documenti che attestino, tra l’altro, che cosa è stato fatto per alleviare il suo patimento, prima di decidere di toglierle la vita, come, per esempio, «ripetuti tentativi di aiuto professionale, psichiatrico e psicologico».