Siciliani
E se tassassimo chi non ha figli? No, non è una battuta. Ma una proposta contro la denatalità lanciata da Paul Morland, noto "ingegnere della demografia", come viene chiamato nel giro dei ricercatori dell’Università di Londra e Oxford, dalle colonne del Sunday Times. L’articolo pubblicato a luglio è diventato virale nel giro di poche ore. Le polemiche che ha sollevato agitano ancora l’opinione pubblica britannica. Se il suo obiettivo era riportare il tema dell’inverno demografico al centro dell’attenzione, dirottata negli ultimi anni su altre emergenze, si può dire che è stato centrato.
L’idea di far pagare una tassa alle coppie senza prole non è nuova. Negli anni ’40 del secolo scorso Stalin la impose nell’Unione Sovietica per incoraggiare i russi a fare figli ed è rimasta in vigore fino alla dissoluzione dell’Urss. Il ministero della Salute ha cercato di reintrodurla nel 2006 ma la Duma ha respinto l’istanza. Un provvedimento simile era già stato introdotto anche in Italia durante il fascismo. La legge sul celibato del 1927 sanciva che tutti gli uomini non sposati di età compresa tra i 25 e i 65 anni dovessero pagare un tributo che variava da 70 a 100 lire a seconda del reddito. Si narra che anche l’imperatore Augusto, poco meno di duemila anni prima, avesse preteso una gabella dello stesso tipo dai senatori senza moglie.
La proposta di Morland non ha nulla a che fare con la necessità tipica dei regimi di far crescere le nascite per avere giovani sempre a disposizione per ingrossare le fila dell’esercito. Ma con i dati sull’invecchiamento della popolazione britannica, che non cresce dal 2011, e sulle stime relative alle spese che le future generazioni dovranno sopportare per l’assistenza sociosanitaria degli anziani sempre più numerosi. Un fardello ingombrante che negli anni a venire rischia di diventare insostenibile perché, avverte, «l’inverno demografico è appena cominciato». L’accademico, convinto che la curva decrescente della natalità non possa essere invertita facendo affidamento solo sui bambini nati dagli immigrati, immagina la tassa sui single come il negativo degli assegni familiari. Un tot di denaro versato da chi non ha prole per finanziare il sistema di cura della prima infanzia. «Può sembrare ingiusto nei confronti di coloro che non possono o non vogliono avere figli – argomenta – ma apre gli occhi sul fatto che tutti abbiamo una responsabilità nei confronti delle prossime generazioni e che ognuno dovrebbe contribuire ai costi per sostenerle».
Il ragionamento dell’"ingegnere", invitato a discutere le sue idee anche in radio e tv, non entra nel merito dei dettagli fiscali della proposta che, questo è quello che lascia intendere, è più di tipo culturale che economico. Quasi una provocazione, si direbbe, mirata a rendere tutti i cittadini, single compresi, più consapevoli delle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione come, uno tra tanti, la mancanza di forza lavoro. A suo dire neppure la classe politica dirigente ha piena contezza della criticità della situazione perché, spiega, «i cicli elettorali non corrispondono a quelli demografici». Il suo cruccio è «creare una cultura pro-nascita». Un Paese votato alle culle piene è anche quello in cui, spiega, si festeggia per esempio la giornata nazionale della genitorialità. O in cui è consuetudine premiare le famiglie che mettono al mondo il terzo figlio con un telegramma di congratulazioni dal Re. Iniziative simboliche, insomma, varate a integrare politiche concrete. Come destinare le aree verdi delle grandi periferie alla costruzione di case per le famiglie numerose da vendere o affittare a canoni accessibili. L’approccio di Morland è contraddistinto da una nota di sistematicità che lo spinge fino a immaginare un’agenzia nazionale, simile a quella che oggi vigila sulle spese pubbliche, che monitori gli obiettivi di crescita demografica. Un progetto di legge al riguardo è stato non a caso presentato alla Camera dei Lord lo scorso aprile da Robin Hodgson, parlamentare di area conservatrice.
La proposta lanciata dall’articolo, che è stato condiviso centinaia di volte sui social network, si è infranta contro un muro di inevitabili critiche. L’idea è stata bollata come "crudele", "ingiusta", "frivola" e "impraticabile". Come conciliarla, si sono chiesti in molti, con la realtà di coppie che non possono avere figli per motivi di salute? O che magari li hanno persi a causa di un lutto? Perché penalizzare gli omosessuali che, per esempio, rinunciano alla genitorialità perché non condividono la pratica dell’utero in affitto? Non sono forse già abbastanza, soprattutto in tempi di crisi, le tasse che tutti pagano per servizi, come scuole o infrastrutture, di cui non hanno personalmente bisogno? Dilemmi non da poco. Il problema delle culle vuote, scrive la giornalista Rachel Cunliffe sul magazine The New Statesman, «è di importanza esistenziale», inutile negarlo, «ma deve essere il governo a sobbarcarsi i costi di una società davvero votata alla natalità, non i singoli cittadini. Occorrono investimenti per aiutare i genitori a mettere al mondo dei figli senza correre il rischio di suicidio professionale e devastazione finanziaria». Quindi più fondi per asili, congedi parentali e programmi di affitto a prezzi calmierati. Noti editorialisti britannici come Zoe William e Sean O’Grady si sono affrettati a sottolineare il «tono vagamente neofascista» del linguaggio di Morland. Pericoloso, a detta di molti, perché prospetta nuove divisioni in una società già logorata dallo scontro "tribale" tra ricchi e poveri, nord e sud, brexiter e rimainer, pro-life e pro-choice. Il Regno Unito di tutto ha bisogno in questo momento tranne che di una guerra, combattuta anche solo a parole, tra chi ha figli e chi non può o non vuole averne. I risultati del sondaggio online proposto dal Sunday Times a corredo del pezzo sulla controversa tassa la dice lunga. «Abbiamo bisogno di un piano per incoraggiare un tasso di natalità più elevato?», recita la domanda. La risposta del 74% dei lettori è secca: no.