Con il pretesto di un ottimo lavoro di ricerca in ambito sociologico, Asher Colombo ci offre un racconto straordinario dell’irruzione della pandemia in Italia nel suo recentissimo La solitudine di chi resta. La morte ai tempi del contagio (Il Mulino, 198 pagine 18 euro). L’autore insegna sociologia generale all’Università di Bologna, presiede l’Istituto Cattaneo e recentemente ha guidato uno studio sul morire in Italia, che fa parte dei progetti di interesse nazionale finanziati dal Ministero dell’Università (Prin).
In prima battuta il suo libro offre uno sguardo laico su come il Covid-19 abbia impattato sul morire, tenendo conto dei processi di cambiamento in atto da tempo. Già questo livello di lettura offre spunti interessanti: morire e nascere sono gli unici due eventi certi della vita umana, che accomunano tutti, e il simbolico con la ritualità e il vissuto che li accompagnano sono da sempre il segno per eccellenza dell’epoca in cui avvengono.
Nel contesto di una ricerca poderosa, i cui risultati saranno pubblicati a breve, è descritto l’arrivo del Covid-19. La morte moderna nel mondo occidentale è sempre più spesso quella dei longevi, avviene dopo lunghe malattie, soprattutto croniche e degenerative, che danno il tempo di prepararsi alle famiglie, alle quali dunque spetta un ruolo primario nella fase del morire e dei riti funebri, e così anche alla comunità. La presenza religiosa è poi ineludibile nel commiato, e anche le forme sostitutive laiche conservano uno spessore di sacralità. Col Covid-19 è invece tornata una morte antica: improvvisa, veloce, prematura anche per gli anziani che ne sono vittime – avrebbero tutti vissuto qualche anno in più –, ma soprattutto in solitudine, e in questo senso nuova, privata della vicinanza dei cari nel breve tempo della malattia, nell’agonia e nel morire, e poi anche senza la ritualità post-mortem. Una morte che, nella scorsa primavera, è stata persino senza funerali, scomparsi insieme ai defunti per via delle misure di sicurezza sanitaria.
Nel libro del sociologo presidente dell’Istituto Cattaneo uno sguardo laico sui processi attivati dai drammatici effetti del virus nella cultura e nelle coscienze
E se già prima del Covid le imprese funebri stavano prendendo spazio, con la pandemia hanno per forza di cose assunto un ruolo primario nella gestione della fase successiva alla morte, essendo gli unici soggetti autorizzati a farlo. Una mutazione molto rilevante, quindi, in cui l’organizzazione della morte da parte delle imprese dedicate marginalizza di fatto la comunità, anche familiare, come pure la Chiesa: un fenomeno nuovo, osservato non solo grazie ai dati delle modalità di commiato (per esempio,
il ricorso alle cremazioni e il loro inserimento nella ritualità funebre), ma anche e soprattutto attraverso la lettura dei necrologi, che solitamente hanno lo scopo di informare sull’organizzazione del funerale ma che adesso, privati della loro funzione primaria, diventano loro malgrado lo specchio delle mutazioni in atto. Cambia la percezione di “buona” e “cattiva” morte: la seconda è quella in solitudine, prematura e senza addio, una morte “crudele”, «un male oscuro che imperversa senza pietà», in cui cambia la direzione del flusso della comunicazione fra vivi e morti: se prima di Covid erano i vivi a chiedere la protezione dei morti, domandando preghiere, col Covid sembrano essere i morti a necessitare dei vivi, affinché di loro resti una traccia, perché hanno bisogno di non essere dimenticati. «Ma per tutti emerge una domanda di quei contatti, relazioni, legami e scambi con chi non c’è più, che le restrizioni per combattere la pandemia hanno sequestrato», commenta Colombo, illustrando tutte le forme dolorosamente creative delle famiglie che cercano di superare gli ostacoli al contatto con i propri cari e di aggirare in qualche modo i divieti per poter raggiungere quei corpi negati e ristabilire la vicinanza perduta.
Determinante a questo scopo l’intervento di coloro che ai malati prima, e ai morti poi, avevano avuto sempre accesso: il personale sanitario, i religiosi, i lavoratori delle imprese funebri. Ed è su questa lunghezza d’onda che si sintonizza il secondo livello di lettura del libro, uno straordinario affresco di quello che è stato il Covid nella primavera di un anno fa, essenziale per capire anche quanto sta continuando ad accadere. Asher Colombo si rivela un narratore particolarmente capace, che mette la sua ricerca al servizio delle voci dei protagonisti: spiegando gli eventi e interpretando i dati, pone in primo piano i soggetti del dramma e dà ancora più forza ed efficacia alla loro voce. Non è il sociologo ad avvalersi delle storie raccolte per la sua ricerca, ma sono i racconti che si avvalgono del sociologo per emergere nella loro potenza. Ne risulta un quadro intenso e coinvolgente dei fatti accaduti, che riesce a dare le giuste dimensioni – enormi – di quanto successo, senza cadute di stile.
Il secondo capitolo del libro, in particolare, costruito attorno alle vicende di un ospedale del Nord Italia (che resta anonimo), è forse quello che più lascia il segno. Si legge d’un fiato – come tutto il libro, del resto – e restituisce per intero il dramma vissuto. Il dramma della scelta, che inizia dagli operatori del 118 perché si deve velocemente decidere chi prendere in ambulanza: «I parenti non volevano che portassimo via i pazienti da casa, perché avevano capito che se li portavamo via non li avrebbero più visti»; e poi i medici: «Eravamo nel chiuso di un Pronto
Soccorso, ma era come se fossimo stati in un teatro di guerra in cui trovi venti feriti a terra, e tu sei solo con un’infermiera, e devi fare 'tu sì e tu no'»; e i familiari: «Ma mia mamma, mio papà sono stati selezionati o sono stati scartati?». E ancora, la richiesta ai laici del personale sanitario – quando i cappellani non potevano – di farsi carico persino «di pregare insieme ai pazienti, ai familiari, ai colleghi al capezzale del morente, e di segnarlo sulla fronte», con impresari di pompe funebri che, al vedere i tanti corpi chiusi nei sacchi nella camera mortuaria, si sono spinti a gesti di «pietà cristiana: aprire uno di quei sacchi grigi, prendere le mani del defunto per incrociarle sul petto, fare il segno della croce sulla fronte del defunto e recitare per lui una preghiera». E poi le morti in solitudine: «Era l’angoscia di non sapere come erano morti la cosa peggiore». E gli ultimi messaggi, fino ai disegni dei nipotini nelle bare dei nonni. E su tutte, ancora un medico: «Ecco, questa pandemia è come se avesse ristabilito i fondamentali, e qualcuno ci avesse ricordato che non abbiamo il controllo di tutto. È come se, a un certo punto, fosse arrivato qualcosa di naturale a dire: ok, abbiamo scherzato; adesso vi faccio vedere di cosa sono capace. E lo ha fatto».
In tutto questo, i morti non sono mai raccontati come “anziani con co-morbilità”, quasi in contrapposizione ai giovani che non si ammalano, come invece trapela sempre più spesso nella cronaca mediatica, soprattutto adesso, quando le centinaia di morti quotidiane sembrano ridotte a cifre da bollettino: non conta l’età per chi se ne va né per chi resta, nelle parole di Asher Colombo. E anche per questo il suo libro è tutto da leggere.