Aprire o chiudere le porte di fronte alla legalizzazione del suicidio assistito? Il Comitato Nazionale di Bioetica non prende posizione, crede sia opportuno innanzi tutto distinguere e riflettere. E pubblica un documento che intende "svolgere una riflessione sull'aiuto al suicidio a seguito dell'ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale". Il riferimento è al caso di Marco Cappato e "alla sospetta illegittimità costituzionale dell'art. 580 del codice penale".
Ma i pareri sono tutt’altro che unanimi. Il testo è complesso, com’è inevitabile su una questione in cui si intrecciano questioni etiche e giuridiche. Tanto che il Comitato ritiene necessario spiegare, in una lunga premessa, che “qualunque possa essere la valutazione morale della liceità o illiceità del suicidio assistito, va considerato che discorso morale e discorso giuridico non devono né necessariamente coincidere né essere radicalmente separati”. E che quindi le scelte del legislatore “devono andare a bilanciare i diversi valori in gioco, al fine di poter rappresentare le diverse istanze provenienti dalla società”.
Né chiusura, né apertura quindi al suicidio assistito. Le posizioni rimangono lontane e, proprio per evitare una spaccatura che sarebbe stata spiacevole su un tema così delicato e controverso, gli esperti hanno preferito dare conto di tutti gli orientamenti emersi, senza arrivare alla resa dei conti.
Il documento si sviluppa in una lunga spiegazione sulla differenza tra suicidio assistito ed eutanasia, approfondisce quale valore attribuire alla volontà della persona, illustra il rispetto dei valori professionali del medico e degli operatori sanitari, non nasconde il rischio di un “pendio scivoloso” secondo cui, una volta ammesso il suicidio assistito, si aprirebbe la strada verso una cultura della morte senza barriere etiche - secondo il modello olandese – “situazione questa che verrebbe a pesare maggiormente sui soggetti meno abbienti e/o privi di affetti familiari”.
C’è poi un capitolo sull’importanza delle cure palliative e della terapia del dolore, prima di lasciare spazio alle posizioni etiche e giuridiche, molto differenziate, all’interno del Comitato, di cui diremo tra poco. E si tratta sicuramente della parte di maggior interesse. La conclusione è affidata a sei raccomandazioni , condivise da tutti, che esprimono una posizione di buon senso ma evitano accuratamente di andare al cuore della questione, e cioè: eticamente accettabile o no aprire la strada alla legalizzazione del suicidio assistito? Le “raccomandazioni” si limitano ad auspicare che il dibattito si sviluppi “con la dovuta attenzione e con il necessario approfondimento”.
Ribadisce l’impegno di “fornire adeguate ai malati inguaribili in condizioni di sofferenza”. Esorta ad assicurare ai malati in queste condizioni un “alto standard di cure e di trattamenti”. Ritiene indispensabile “implementare le informazioni” sul tema a tutti i cittadini in modo da evitare “che le domande di assistenza al suicidio siamo motivate da sofferenze che potrebbero essere trattate con il consenso della persona malata, in maniera efficace”. Sollecitazione importante ma forse un po’ prematura. Forse sarebbe stato opportuno attendere il varo di un’eventuale legge.
Infine si auspica la promozione della ricerca scientifica biomedica e psicosociale e la formazione degli operatori sanitari. Difficile non essere d’accordo. E infatti il voto favorevole è risultato unanime. Con un solo contrario, Francesco D’Agostino. Al termine compaiono tre postille, pubblicate contestualmente al parere.
La prima, appunto di D'Agostino, che spiega le ragioni del voto negativo. L’ex presidente del Comitato di bioetica ritiene che sia giunto il momento di passare da una bioetica come “mera e serena prospettazione di tesi contrapposte, e meno che mai volenterosi tentativi di mediazione tra di esse” a una bioetica “prescrittiva”, capace di “decisioni orientate al vissuto delle persone”. Le altre postille sono di Assunta Morresi e Maurizio Mori, che pur avendo approvato il documento, hanno voluto precisare le proprie motivazioni di dissenso su alcuni temi trattati.
Il cuore del documento, come detto, è rappresentato dalle riflessioni offerte dai vari membri, raggruppate in tre aree. La prima – posizione A – sottolinea come l’eventuale legittimazione del suicidio assistito rappresenti “un vulnus irrimediabile al principio secondo il quale compito primario e inderogabile del medico sia l’assoluto rispetto della vita del paziente”. Inoltre risulta impossibile accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, “la pretesa volontà suicidaria del paziente, assunta come volontà pienamente informata, consapevole, non sottoposta a condizionamenti psicologici, familiari, sociali, economici o religiosi”. Il terzo motivo del no riguarda il rischio che un’eventuale apertura al suicidio assistito favorisca “un progressivo superamento dei limiti che si volessero eventualmente indicare, come appare assolutamente evidente in quegli ordinamenti che, avendo legalizzato il suicidio medicalmente assistito, l’hanno di fatto esteso indebitamente ai minori, a soggetti psicologicamente e/o psichiatricamente fragili, agli anziani non autosufficienti”.
Insomma, se lo scivolamento dal “lasciar morire” (no all’accanimento terapeutico) all’”agevolare la morte” (aiuto al suicidio) è inaccettabile, occorre allo stesso tempo raddoppiare gli sforzi per offrire a tutti i malati l’accesso alle cure palliative, alle terapie del dolore e all’assistenza psicologica alla fine della vita. La posizione è stata sostenuta da Amato, D’Agostino, Dallapiccola, Di Segni, Garavaglia, Gensabella, Morresi, Romano, Palazzani, Scaraffia e Sargiacomo.
Altri membri del Cnb hanno invece rappresentato l’opportunità di aprire la strada alla legalizzazione del suicidio assistito (posizione B). Scelta, si argomenta, da accogliere in nome del principio etico di autodeterminazione. “Si reputa che il bilanciamento di valori favorevole all'aiuto al suicidio medicalmente assistito sia eticamente e giuridicamente legittimo perché la persona – hanno spiegato Battaglia, Caltagirone, Caporale, Casonato, d’Avack, De Curtis, Donzelli, Garattini, Mori, Pitch, Savarino, Toraldo di Francia e Zuffa - ha diritto di preservare la propria dignità anche e soprattutto nelle fasi finali della vita”. Tre le condizioni richieste che ricalcano in parte quanto già espresso nell’ordinanza della Corte costituzionale: 1. la presenza di una malattia grave e irreversibile accertata da almeno due medici indipendenti (uno dei quali del SSN); 2. la presenza di uno stato prolungato di sofferenza fisica o psichica di carattere intrattabile o insopportabile per il malato; 3. la presenza di una richiesta esplicita espressa in forma chiara e ripetuta, in un lasso di tempo ragionevole.
Infine altri due membri del Cnb (Canestrari, Da Re) hanno espresso una terza posizione, contraria all’apertura al suicidio assistito ma convinta che la libertà di autodeterminazione possa manifestata solo “in un contesto concreto in cui i pazienti godano di un'effettiva e adeguata assistenza sanitaria, ove possano accedere a tutte le cure palliative praticabili - compresa la sedazione palliativa profonda - e nel quale siano supportati da una consona terapia medica, psicologica e psichiatrica”. Il potenziamento della terapia del dolore e delle cure palliative “non possono eliminare del tutto le richieste di assistenza medica a morire, ma - concludono i due esperti - potrebbero ridurle in maniera significativa, escludendo quelle dettate da cause legate ad una sofferenza alleviabile”.