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Sarà il Parlamento a esprimere una valutazione – probabilmente non definitiva – sull’uso della triptorelina, il cosiddetto "farmaco gender" che permette di bloccare la pubertà dei preadolescenti affetti da disforia di genere in previsione della "riassegnazione chirurgica" del sesso. Dopo le polemiche scatenate dal via libera dell’Aifa, il caso passa alla commissione Sanità del Senato. Parte questa settimana un ciclo di audizioni che dovrebbe permettere di acquisire le informazioni necessarie ad esprimere un giudizio più ponderato. Il problema sarà su quali dati riflettere, perché non esistono al momento ricerche scientifiche considerate “definitive”.
Gli stessi addetti ai lavori sono divisi. Ci sono società scientifiche, tra cui quella di adolescentologia, che vorrebbero escludere del tutto il ricorso alla triptorelina a causa delle pesantissime controindicazioni mediche e psicologiche. E c’è chi invece è disponibile a valutarne l’impiego caso per caso, in casi rarissimi, sotto attento controllo psicologico. Si sono espressi in questo senso le società di andrologia e medicina della sessualità; endocrinologia e diabetologia pediatrica e l’Osservatorio nazionale sull’identità di genere.
Ma all’estero, dove questo farmaco è utilizzato da almeno vent’anni, qual è la posizione? Ieri il Times ha pubblicato una lunga inchiesta in cui racconta che i cinque medici del Servizio sanitario nazionale inglese che si occupa di disforia e cambio di sesso hanno presentato le dimissioni. Una scelta motivata dall’atteggiamento della clinica in cui operano – l’unico servizio pubblico in Gran Bretagna per queste patologie – in cui centinaia di bambini sarebbero avviati alla “transizione sessuale” dopo un pesante bombardamento ormonale, senza prove sufficienti sugli effetti a lungo termine di questi farmaci. I medici dimissionari erano proprio incaricati di individuare, tra i giovanissimi affetti da disforia di genere, a chi somministrare i farmaci che bloccano lo sviluppo sessuale. Come in Italia, anche nel Regno Unito, le richieste sono aumentate a dismisura.
Nel 2010 gli specialisti del Servizio sanitario nazionale avevano trattato 94 casi. Nel 2018, secondo quanto riporta il Times, i casi sono diventati 2.519. E ci sarebbe anche un bambino di soli 3 anni. Evidentemente non tutti – anche se questo il Times non lo dice – sono stati trattati con triptorelina. Tra i pochi dati condivisi a livello internazionale sulla disforia di genere c’è la percentuale di remissione della patologia. La disforia di genere, al termine dell’adolescenza, persiste soltanto in una quota compresa tra il 12 e il 27% di coloro che avevano manifestato disagi più o meno gravi per lo sfasamento tra sesso biologico e sesso "percepito" a livello psicologico. Non va dimenticato neppure il dato generale che parla di un caso ogni 9mila persone. Si tratta quindi di numeri davvero esigui che però, come confermano gli specialisti, appaiono in costante crescita.
Un problema reale o il frutto deviato di una pressione culturale indotta dall’arcipelago delle cosiddette teorie del gender, che induce i genitori a segnalare un problema di disforia laddove esistono solo situazioni nella norma? Secondo quanto scrive il quotidiano inglese, i clinici che hanno presentato le dimissioni ritengono che associazioni transgender come Mermaids promuovano la transizione sessuale come cura utile per qualsiasi adolescente confuso. I medici hanno riferito di aver subito pressioni per consigliare ai giovanissimi trattamenti farmacologici pesanti, anche se personalmente erano convinti non fosse necessario. Mermaids (che significa "sirenette"), associazione inglese che promuove l’accettazione sociale della transessualità, e che in passato ha proposto di abolire il requisito dei 16 anni per poter accedere a trattamenti ormonali per il cambio di sesso, ha però smentito queste accuse.
In realtà pensare di risolvere i disagi derivanti dalla disforia di genere con l’uso esclusivo della triptorelina è una banalità che nessuno propone. Gli esperti che si occupano di questa patologia sanno che nei casi più gravi, di fronte ai quali anche la psicoterapia appare insufficiente, si possono verificare anche tentativi di suicidio o gesti autolesionistici. Che fare in queste circostanze, rarissime ma comunque esistenti?
Sull’uso del farmaco si era espresso, già nel luglio del 2018, il Consiglio nazionale di bioetica avanzando alcune raccomandazioni ispirate alla cautela e alla valutazione caso per caso.