sabato 13 luglio 2019
Il presidente della Cei: priorità a sostegni vitali e cure palliative. La legge in Parlamento? Forse si potrebbero differenziare (non depenalizzare) le sanzioni per la morte medicalmente procurata
Archivio Siciliani

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Un fermo no alle ipotesi di "morte medicalmente assistita", l’accorato appello alla politica perché lavori piuttosto sull’estensione dell’accesso alle cure palliative, vera risposta alla sofferenza estrema, e il sostegno all’ipotesi di limitata riforma dell’articolo 580 del Codice penale attenuando parzialmente e sotto stringenti condizioni la sanzione dell’aiuto al suicidio oggi prevista, ma senza cancellarla. È una riflessione insieme umana, evangelica, culturale e giuridica quella che il cardinale Gualtiero Bassetti offre in questa intervista concessa subito dopo la consumazione della tragedia di Vincent Lambert e mentre il Parlamento cerca una soluzione alla richiesta della Corte Costituzionale per un nuovo e mirato intervento sul percorso di fine vita entro gli ormai risicati tempi previsti dagli stessi giudici.

Il drammatico epilogo della vicenda di Vincent Lambert ha scosso l’opinione pubblica. Eminenza, lei cos’ha pensato?Non posso che far mie le parole della Conferenza episcopale francese: attraverso la strumentalizzazione delle lacerazioni di una famiglia, si è nutrita la confusione, spacciando la vicenda di Lambert come quella di una persona in fin di vita. Non lo era, come del resto molte altre persone dette in stato vegetativo o anche di minima coscienza. Idratazione e nutrizione assistite non possono essere considerate trattamenti sanitari, ma sostegni vitali, cioè una forma di accudimento.

Nelle stesse ore sei associazioni cattoliche si sono espresse contro l’eutanasia e la sua introduzione nell’ordinamento italiano, mentre una rete di sigle del laicato ha aderito convintamente a un seminario contro il "diritto di morire". Come valuta questa mobilitazione?
La preoccupazione manifestata da tanti laici, anche di diversa sensibilità, mi auguro che possa contribuire al dibattito pubblico e a far maturare un giudizio preciso. Su temi che riguardano tutti il contributo culturale dei cattolici è non solo doveroso ma anche atteso da una società che cerca punti di riferimento. Ci è chiesto di saper andare oltre la pura testimonianza, per saper dare ragione di quello che sosteniamo.

Alla Camera si stanno discutendo alcuni disegni di legge e ipotesi di apertura a forme di "morte medicalmente assistita", come la si definisce. Che idea si è fatto?
Sono allarmato per quel che potrebbe significare per noi tutti accettare che si possa legittimamente aiutare qualcuno a morire. Provo un profondo turbamento di fronte alla possibilità che anche nel nostro Paese si aprano le porte all’aiuto al suicidio, tramite una legge o attraverso le sentenze di tribunali ordinari o della Corte Costituzionale. Sulla questione pende, come noto, una decisione della Consulta che si riunirà il 24 settembre, a meno che il Parlamento non si pronunci al riguardo, ad esempio intervenendo sull’articolo 580 del Codice penale soltanto per differenziare e attenuare – non depenalizzare! – in alcuni casi la previsione sanzionatoria all’aiuto al suicidio.

Come si spiega che una parte dell’opinione pubblica sia arrivata a considerare l’aiuto al suicidio come possibile risposta alla sofferenza?

La nostra società, come non è più organizzata per accogliere e accudire i figli, non sembra culturalmente strutturata nemmeno per assistere i malati, soprattutto quelli cronici, rispetto ai quali si rischia di considerare come spreco l’investimento di tempo e denaro. La famiglia, spesso lasciata sola nel dolore, può allora sentirsi spinta ad arrendersi alla cultura della "morte pietosa". Gli stessi malati, quando si sentono "di troppo", possono finire per invocare questa "soluzione". Dove prevale un disegno individualistico, tutti siamo spinti a "girarci dall’altra parte" o a chiuderci in un cinismo "economicista" che, in determinate condizioni, porta l’uomo a essere considerato sacrificabile. Persino nella subdola forma di un aiuto al suicidio.

Quale dovrebbe essere la risposta del credente a questa sfida?
Da cristiani, prima di qualunque riflessione giuridica e politica, avvertiamo il dovere di custodire e annunciare la grande speranza che viene dalla fede: non esiste dolore o sofferenza che non abbia un senso di fronte a Gesù Cristo, che ha preso su di sé il dolore e il male del mondo. Per quanto la sofferenza rimanga un mistero insondabile, è in essa che spesso l’uomo trova profondamente se stesso e incontra Colui che l’ha creato, voluto e amato fin dal principio".

Non tutti hanno questo dono della fede...
Certamente. Ma non è necessario essere credenti per riconoscersi membri di quella grande comunità che è l’umanità, dove ogni uomo ha lo stesso valore e la stessa dignità, a prescindere dalle condizioni in cui si trova. Perdere questo orizzonte potrebbe significare aprire a qualsiasi facilitazione di morte procurata per legge, anche depenalizzandone l’aiuto. Siamo contrari, e – ripeto – non serve essere credenti per questo. La parabola del buon Samaritano, che in questa domenica risuona in tutte le nostre chiese, attende la nostra risposta rispetto a quanti oggi giacciono ai margini della vita: il sofferente può essere visto come un ostacolo da evitare o come qualcuno davanti a cui provare compassione. Crediamo che l’uomo, ogni uomo, valga più del nostro viaggio, del nostro olio e del nostro vino, del nostro denaro e del nostro tempo.

Si dice che andrebbe consentita la morte a richiesta a chi mostra di non saper più reggere uno stato di prostrazione psico-fisica. Cosa pensa di questo argomento?
Di fronte a una sofferenza, spesso conseguenza di una malattia inguaribile, la soluzione più facile può sembrare quella di accorciare la vita nel modo meno doloroso. Quando una persona sente una sofferenza insopportabile, la si vorrebbe autorizzare ad accedere a una morte volontaria. In questo senso, distinguere fra il suicidio e le varie forme eutanasiche ha un’importanza secondaria: che sia il dottore a iniettare il farmaco, che lo offra sciolto in un bicchiere che la persona berrà da sé, o che stacchi un sostegno vitale con lo scopo esplicito e deliberato di procurare la morte, sempre di atto eutanasico si tratta.

La richiesta di ottenere la morte è legata all’estensione del perimetro della libertà individuali. Cosa comporta questa dilatazione senza più limiti dei diritti individuali?
Mi sembra che così si arrivi a considerare la scelta di morire alla pari di quella di vivere: morte e vita vengono poste sullo stesso piano, in alternativa, purché la decisione sia volontaria e consapevole. La logica conseguenza è che la massima espressione della propria libertà si realizzerebbe annientando se stessi. Una contraddizione, ma soprattutto un cambiamento radicale di mentalità, con conseguenze enormi; un drammatico punto di non ritorno per la nostra società, qualsiasi siano gli orientamenti culturali, politici, religiosi da cui si muove.

Che risposta va data alla sofferenza?
Chi soffre non ha bisogno di qualcuno che gli indichi l’uscita di sicurezza verso la morte – peraltro vissuta come un "dissolversi nel nulla" – ma di essere sostenuto, aiutato, ascoltato, mai lasciato solo. Non mi stancherò mai di pensare che spesso basta una vicinanza amorevole per dare senso, sollievo e speranza a chi la speranza l’ha persa, sia un malato o i suoi familiari, che a volte ne vivono il dolore in maniera persino più forte.



Esorto quindi la politica, perché metta al primo posto un concreto accesso per tutti a cure adeguate, a partire da quelle palliative e dalla terapia del dolore


Quale domanda esprime chi contempla l’ipotesi del suicidio assistito?
Paradossalmente, una domanda di cura. Non è, infatti, tanto o solo il dolore fisico a provocare la richiesta di morte: l’esperienza e i dati ci dicono che, laddove cure palliative e terapia del dolore sono offerte con competenza e umanità – come accade in tanti hospice – nessuno chiede di essere ucciso. Sappiamo purtroppo che non a tutti sono offerti questi percorsi indispensabili di accompagnamento nelle fasi critiche della vita. Quella dell’accesso alle cure è forse la più odiosa fra le diseguaglianze, perché colpisce i più deboli e i più fragili. Esorto quindi la politica, perché metta al primo posto un concreto accesso per tutti a cure adeguate, a partire da quelle palliative e dalla terapia del dolore.

I sostenitori di eutanasia e suicidio assistito sostengono che la richiesta di morte va esaudita solo se volontaria e a determinate condizioni…
Se fosse sufficiente la certezza della volontà, allora perché prevenire il suicidio o cercare di impedirlo? In realtà, mi chiedo quanto possa essere "libera" una richiesta di essere aiutati a morire, se tutto ti fa sentire ormai solo come un peso. Un peso anzitutto per la famiglia, sempre più fragile; un peso perché l’assistenza sembra avere sempre meno valore umano e sociale; un peso perché vede la società farsi carico di una vita dipendente e costosa. Può davvero essere considerata "libera" la richiesta di morire, se si ha paura di restare soli, incapaci di badare a sé? Se ci arrendiamo a una mentalità dell’abbandono, che si maschera di falsa compassione, finiremo per relativizzare il valore stesso dell’uomo.

È accettabile che i medici debbano limitarsi a prendere atto di una richiesta di morte?
Sarebbe una rivoluzione rispetto ai fondamenti della medicina, che da millenni si basa sull’idea opposta: il "favor vitae", per cui il medico aiuta a preservare la vita. Invece, nei Paesi in cui è prevista dalla legge, la morte medicalmente assistita diventa un atto medico: eutanasia o suicidio assistito sono entrati a far parte delle possibili opzioni terapeutiche; magari una possibilità estrema, ma pur sempre una "cura", persino per chi soffre di depressione. Significativamente, dove queste leggi sono state approvate, le morti procurate sono sempre aumentate negli anni. Introdotta come un’eccezione, diventa una delle opzioni in campo.

La nostra società considera l’eutanasia, eppure ha sempre più paura della morte...
Mi sembra che oggi si voglia depurare la morte dal mistero che inevitabilmente la circonda, illudendoci di poter decidere tutto e quindi di esorcizzarla, oscurando il carico di drammaticità della condizione umana. È così che si è arrivati a Vincent Lambert e a Noa, la ragazzina olandese che si è lasciata morire con un dottore che ha assecondato tutto, anziché aiutarla a vivere. Pensiamo veramente che sia questa la strada con cui sconfiggere la disperazione?

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