Marco Cappato all'ingresso Tribunale di Genova presidiato da attivisti radicali pro-eutanasia - ANSA/LUCA ZENNARO
La Corte d’Appello di Genova con un procedimento lampo ha confermato la sentenza pronunciata lo scorso luglio dalla Corte d’assise di Massa che aveva assolto Mina Welby e Marco Cappato – co-presidente e tesoriere dell’Associazione radicale Luca Coscioni – dall’accusa di aver aiutato a morire Davide Trentini, il 53enne malato di sclerosi multipla accompagnato in Svizzera presso una centro specializzato che eroga il suicidio assistito. Fino alla sentenza 242 del 2019 pronunciata dalla Corte Costituzionale, l’assistenza nel suicidio era sempre e comunque un reato. Quella pronuncia, invece, ha aperto una finestra di non punibilità in presenza di alcune tassative circostanze, tra cui quella in cui il malato grave e irreversibile che chiede di farla finita sia soggetto a trattamenti salvavita.
Ma cosa volevano intendere i giudici della Consulta con questa espressione? Fino alla sentenza di Massa, era riferita a interventi quali ventilazione polmonare, idratazione e nutrizione artificiali e trattamenti similari. La decisione di primo grado, confermata ora in appello, ha invece ricompreso in questa espressione anche la sottoposizione a semplici farmaci la cui mancata somministrazione potrebbe provocare la morte. Un allargamento del perimetro di non punibilità dell’aiuto al suicidio che sembra agevolare la corsa della legge sull’eutanasia, chiamata a dare applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale, il cui iter sta iniziando alla Camera. Con il verdetto di Genova che potrebbe spingere ad ampliarne il raggio d’azione.