IV domenica di Quaresima - Anno C
Disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò...».
Ci sono storie che si ripetono, storie di famiglie che rappresentano un po’ ogni famiglia, storie di porte sbattute, di silenzi pesanti, a volte di grida di insofferenza, di mormorii tra fratelli e sorelle, di dolori trattenuti. Oggi Gesù ce ne racconta una per dirci di un padre, quello sì, un po’ particolare. Istintivamente mi immedesimo nel figlio minore, quel ragazzo spavaldo, forse superbo, che con fare sprezzante si rivolge al padre chiedendogli la sua parte di eredità e che va via sbattendo la porta di casa. Petto gonfio, a passi decisi, mi avvio verso la libertà. Forse tiro pure un sospiro di sollievo. Mi sento un sogno in volo: cosa cerco? Cosa mi aspetto? Feste, risate, avventure e piaceri infiniti, «sogni di gloria» insomma. Nulla può fermarmi, sono padrone del mondo, finalmente. Non penso a mio padre, che senza fiatare mi ha guardato allontanare: cosa avrà provato sentendo i miei passi lontani? Il suo cuore di quanto si sarà gonfiato? Non voglio pensarci, oggi ci sono solo io e voglio godermela. E Lui aspetta, quel Padre che non smette mai di essere padre, aspetta sperando, sempre sul terrazzo di casa, caso mai torni. I giorni passano e il vestito lussuoso è diventato un cencio, non ho più uno spicciolo e gli amici, quelli con i quali ho brindato, mi hanno lasciato solo. Ho fame mentre là, a casa mia, persino i servi mangiano in abbondanza. La fame di un pezzo di pane mi muove, non l’amore. «Mi alzerò... andrò... gli dirò...» il futuro è già presente, il ragazzo ha capito. È bastata la fame, è bastato sentire i morsi di un paradiso non artificiale, i morsi dell’infinito. Ed eccolo che a passi svelti, si incammina: forse tra sé e sé ripete le parole da dire al padre, parole di scusa, di vergogna. Non ne ha il tempo: vede il Padre che gli corre incontro, le sue braccia lo stringono forte, forse proprio per non farlo parlare, i due cuori si toccano. Finalmente sei tornato. Così è Dio, il Dio del «Che bello!», il Dio della festa. Peccato che arrivi il fratello maggiore, quello sempre troppo fedele, sempre perfetto, sempre giusto, quell’insopportabile sapientone al quale, solo ora, mi scopro di assomigliare. Ma Lui, il Padre, non si lascia rovinare la festa, Lui «beveva, cantava, rideva. Quei rimproveri non li ha neanche sentiti. Era un tipo d’uomo particolare: sentiva solo la gioia; per il resto, era sordo». (Christian Bobin)
(Letture: Giosuè 5, 9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5,17-21; Luca 15,1-3.11-32
)
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