Un campo spelacchiato e tanta voglia di far bene
mercoledì 12 febbraio 2025
Lunedì, come ogni 10 febbraio, il nostro Paese ha celebrato il “Giorno del ricordo”, la commemorazione in memoria dei massacri delle foibe e dell'esodo giuliano dalmata. Quello di tramandare il ricordo del dramma vissuto dalle popolazioni di lingua italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, a causa dei mutamenti geopolitici seguiti alla Seconda Guerra mondiale, è un dovere civico. Più di trecentomila bambini, donne, uomini tra il 1946 e i primi anni Cinquanta, abbandonarono la Venezia Giulia e le loro città ricche di storia veneziana come Pola, Parenzo, Rovigno e ancora Fiume, Zara, Spalato e altre località della riva orientale dell’Adriatico. Un esodo disperato e silenzioso sul quale, così come sugli ingiustificabili eccidi compiuti dai partigiani jugoslavi nel 1945 e sulle violenze fasciste che li avevano preceduti, si intrecciarono silenzi, ipocrisie diplomatiche e strumentalizzazioni politiche. Di quei trecentomila esuli, più di ottomila si stabilirono a Torino, spesso in condizioni abitative a dir poco precarie, in case inadeguate per nuclei familiari composti spesso da molte persone. Il 5 ottobre 1953 il Consiglio Comunale di Torino approvò la donazione allo Stato di un’area nel periferico quartiere “Lucento”, nella parte nord della città, dove il Ministero dell’Interno finanziò la costruzione di un villaggio destinato all’accoglienza di quella comunità esule. Nacque, su un’area estesa 45.000 metri quadrati, il “villaggio Santa Caterina”, dove ancor oggi vivono gli ultimi protagonisti dell’esodo e molti loro discendenti. Torino, la città dei santi sociali, non poteva però lasciare una comunità così grande senza un punto di riferimento religioso e, a metà degli anni Cinquanta, venne posata la prima pietra di una Parrocchia che, naturalmente si sarebbe chiamata Santa Caterina da Siena. Ma a Torino, proprio perché città dei santi sociali, era difficile immaginare una Parrocchia senza un oratorio. Per cui nella nascente Parrocchia di Santa Caterina si ricavò un piccolo e spelacchiato campo da calcio che sarebbe diventato protagonista di una storia incredibile che, tempo fa, avevo raccontato in questa rubrica: quel campetto, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, sfornò un numero impressionante di talenti che arriveranno a giocare in serie A e dal villaggio di Santa Caterina iniziò anche la carriera di Sergio Vatta, nato a Zara, allenatore e maestro di calcio, che diventerà il mago delle giovanili del Torino calcio e che lanciò, oltre a tanti altri campioni, Christian Vieri, Gigi Lentini, Roberto Cravero, Antonio Comi. Spesso, nel nostro Paese, le discussioni sulla mancanza di infrastrutture sportive diventano alibi per giustificare l’immobilismo delle politiche per lo sport. Bisognerebbe più spesso seguire il consiglio che dà, a se stesso, Santiago, l’anziano pescatore protagonista de Il vecchio e il mare di Hemingway: “Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai”. La storia del villaggio e dell’oratorio di Santa Caterina a Torino insegnano che se si fa al meglio con ciò che si ha, in questo caso un dramma da superare alle spalle, un forte senso di comunità e un campetto spelacchiato, forse non tutto, ma molto, moltissimo è possibile. © riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: