mercoledì 16 aprile 2008
Tzvetan Todorov ha legato i nastri azzurri dello strutturalismo negli anni '60, quando, svezzato da Roland Bathes e da Gérard Genette, dalla nativa Bulgaria cominciò a respirare l'aria di Parigi. Il suo nuovo, breve e denso saggio «La letteratura in pericolo» (Garzanti) ha un sincero accento autocritico e sta suscitando vasta discussione. Todorov ha una valida attenuante: interessarsi del metodo letterario anziché dei contenuti era l'unico modo per sfuggire alla pesante censura ideologica del suo Paese d'origine, e a Parigi trovò gli strumenti per proseguire le sue ricerche sui formalisti russi. Ma adesso che, non solo in Francia, lo strutturalismo, spesso abborracciato, è dominante nelle scuole e nella critica letteraria, è giunto il momento di fare il punto. La scelta formalista, infatti, è diventata la copertura del nichilismo e del solipsismo, soprattutto nella variante dell'«autofiction», cioè della miscela di «autobiografia» e di «fiction» che caratterizza tanta letteratura attuale.
«A scuola non si apprende che cosa dicono le opere, ma che cosa dicono i critici», lamenta Todorov. «Senza stupore alcuno i liceali apprendono il dogma secondo cui la letteratura non ha alcun rapporto con il resto del mondo e studiano soltanto le relazioni che intercorrono tra gli elementi dell'opera». Lo studio dei mezzi si è sostituito a quello del significato, che è il fine.
In un sintetico e perfetto excursus storico, Todorov valorizza la definizione di "estetica" che ne ha dato, a metà del Settecento, il filosofo che ha coniato il nome di questa disciplina, e cioè Alexander Gottfried Baumgarten, il quale afferma che l'estetica deriva da un «analogo della ragione» e produce la «conoscenza sensibile». Conoscenza del mondo, perché l'arte non va disgiunta dalla vita e, anzi, deve contribuire a «vivere meglio», come il grande poeta Saint-John Perse ha sempre sostenuto.
«Le opere trasmettono un significato», argomenta Todorov, «e lo scrittore pensa; il ruolo del critico è trasformare significato e pensiero nel linguaggio comune del suo tempo " e poco importa sapere con quali mezzi giunge allo scopo». E ancora: «Essendo oggetto delle letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell'essere umano».
L'infatuazione strutturalista da cui Todorov definitivamente si risveglia ha colpito un po' tutti e io stesso, si parva licet, non sono stato insensibile, sia pure criticamente. Recentemente ho ritrovato su una bancarella un numero speciale che la rivista "Ulisse", diretta dalla cara e compianta Maria Luisa Astaldi, dedicò a "Lingua e linguaggi" nel settembre 1968. Tra dotti saggi di Bruno Migliorini, Alfredo Schiaffini, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Devoto, Giorgio Agamben, Rudolf Engler c'era anche un mio articolo su «Strutturalismo e critica letteraria» che resiste alla rilettura. «Pur riconoscendo la legittimità, anzi, la necessità scientifica», scrivevo quarant'anni fa, «di separare il livello semantico (cioè dei contenuti, del senso) da quello semiologico (del segno, dell'espressione), dobbiamo lavorare sui segni "come se" non avessero un senso, ma senza dimenticare che i segni hanno un senso». Da qui l'alta lezione di Jean Starobinski, uno dei pochi strutturalisti che anche Todorov considera di riferimento, il quale sosteneva che per evadere dal formalismo astorico, le strutture oggettivate vanno considerate «come l'espressione di una coscienza strutturante. Giacché bisogna allora chiedersi: chi è che parla? A chi e che si parla? Per quali fini? Come si è costruita la situazione in cui lo scrittore si è sentito costretto a scrivere? E così via».
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