sabato 24 febbraio 2018
La produzione industriale galoppa a ritmi record in Europa e l'export italiano corre nel mondo. Il Prodotto interno lordo cresce più del previsto, trainato dalla ripresa dei consumi e dall'andamento positivo dell'occupazione. I segni “più” della nostra economia non lasciano dubbi: l'Italia ha superato davvero la Grande Crisi degli anni Duemila, recuperando la sua capacità di competere nel mondo. Eppure, la società italiana continua a vivere una condizione molto diversa. È come se il Paese, nella percezione degli italiani, stesse attraversando un «lungo guado», secondo l'efficace definizione che Nando Pagnoncelli utilizza nel Rapporto Ipsos dedicato all'Italia 2018.
Il Rapporto fotografa un'Italia ancora avviluppata in sentimenti di pessimismo diffuso e di rabbia sociale crescente, di risentimento costante e di frustrazione quotidiana. È una situazione anomala, non più interpretabile secondo le chiavi di lettura classiche che legavano (più o meno direttamente) il sentiment del Paese all'andamento del Pil, dell'occupazione e dei consumi. Naturalmente la “fine della fiducia” nel futuro è questione molto complessa, che non riguarda solo l'Italia. «Mentre le generazioni precedenti vedevano nel futuro il luogo più sicuro e promettente cui rivolgere le proprie speranze, noi tendiamo a proiettare su di esso soprattutto le nostre paure. (...) Più di ogni altra cosa, abbiamo l'impressione di perdere il controllo delle nostre vite», ha scritto Zygmunt Bauman in una delle ultime riflessioni prima della scomparsa, inquadrando un sentimento diffuso nell'intero Occidente e in particolare nella vecchia Europa. E sono note le radici principali di questo fenomeno: la perdita di valore del lavoro, a causa dell'effetto combinato di globalizzazione e automazione, il graduale invecchiamento della popolazione, la progressiva scomparsa della classe media. Ma nel nostro Paese, gli effetti di questa forma di “pessimismo” sono oggi più forti e più duraturi.

Temo che le cause siano essenzialmente due. La prima è l'aumento delle diseguaglianze: così come era avvenuto durante la crisi, la ripartenza dell'economia sta aumentando ulteriormente (e rapidamente) le differenze tra una upper class di imprenditori, manager, professionisti e dirigenti che accrescono le loro ricchezze e un'amplissima classe di emarginati dal lavoro e dalla cittadinanza, che sprofondano in una condizione sempre meno recuperabile di povertà. La seconda causa è l'ulteriore aggravarsi della frattura geografica, come dimostrano anche i dati sullo stato del sistema sanitario nazionale (e, ieri, quelli sulla povertà educativa): chi nasce al Nord vive in media quattro anni in più di chi nasce al Sud, che ha aspettative di vita tra le più basse in Europa. Come se si trattasse di due Paesi diversi.
Ricomporre le fratture, dunque, dovrebbe essere il compito principale di chiunque riuscirà a governare dopo il 4 marzo. Sapendo che riportare gli esclusi nel perimetro della cittadinanza è l'unico vero antidoto alla violenza sociale e politica.
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