Almeno dal punto di vista economico, l’ordine globale potrebbe funzionare meglio, decisamente meglio. Ne abbiamo quotidiana sensazione, e su Avvenire se ne parla spesso. Andrea Sironi, economista e presidente di Generali nonché dell’Università Bocconi, in settimana a proposito del debito che grava sul Sud del mondo ha auspicato un ruolo più attivo delle istituzioni internazionali, Banca Mondiale in primis, nel gestire piani di rientro che consentano non solo di rendere sostenibile il debito ma anche di prevenirne un nuovo insorgere. Molto più duro Stefano Zamagni, che il 27 dicembre intervistato da Diego Motta, è tornato su un concetto ricorrente – il neocolonialismo – con una frase che, in sintesi, suona così: un gruppo di super-ricchi dalla California si è preso il mondo, attraverso Trump. E il Giubileo, ha osservato l’economista, rappresenta una grande occasione per cambiare le regole delle istituzioni internazionali.
Fermiamoci alla prima parte, la denuncia. Qui a ZeroVirgola, dove si prova a mettere in fila qualche numero per capirci qualcosa di più, questa “sparata” di Zamagni risuona ancora. E ha richiamato alla mente una cifra: lo 0,005%. Erano le tasse pagate da Apple in Europa sui profitti accumulati nel Vecchio continente: 50 euro su ogni milione di utile, secondo quanto ricordato qualche settimana fa da un interessante studio del Centre for European Policy, un think tank con varie sedi sparse per l’Europa, tra cui Roma. Solo l’intervento della Commissione europea ha impedito che la situazione potesse protrarsi, nel caso di Apple come degli altri giganti tecnologici americani, ma è una guerra contro i mulini a vento: tra le specialità dei colossi tech c’è proprio lo “slalom fiscale”, cioè l’attitudine a concentrare i profitti sulle società del gruppo con sede nei Paesi con la tassazione più bassa.
È una specie di casinò in cui le società vincono e quasi tutti gli altri perdono. Ma c’è chi perde più della media, come l’Europa: sempre secondo il Cep, ogni anno all’Ue sfuggono 5 miliardi di tasse digitali, considerati gli acquirenti e il luogo in cui i servizi vengono acquistati. Dal 2018 a oggi fanno 30 miliardi di entrate fiscali sfuggite di mano. Un tesoretto che avrebbe potuto essere investito in mille altri modi, ad esempio – per restare in tema – a favore della competitività tecnologica europea, e che invece è rimasto in larga parte nelle tasche dei colossi tech. Tassare le multinazionali è un rebus per tutti, a maggior ragione se si tratta di multinazionali digitali, ma qualche soluzione ci sarebbe: dal dazio digitale (un prelievo fiscale sui software importati in Europa) al pedaggio per accedere alle infrastrutture di rete, fino a un’imposta applicata sui ricavi sviluppati grazie al contributo degli utenti (per lo più sotto forma di dati). Certo l’Europa dovrà imparare a farsi rispettare, vista l’aria che tira in fatto di dazi con l’imminente ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e ai trasferimenti di ricchezza che regolarmente avvengono a senso unico da una costa all’altra dell’Atlantico. «Mentre le nostre esportazioni contribuiscono al finanziamento del bilancio nazionale statunitense attraverso i dazi doganali, l’imposta sulle società e le tasse tradizionali, questo non accade con le esportazioni americane di alta tecnologia in Europa», ha commentato Paul-Bernhard Kallen, presidente di Hubert Burda, tra le principali case editrici tedesche e committente della ricerca. Conclusione: «Le grandi aziende digitali americane utilizzano in larga misura le nostre infrastrutture ma non pagano praticamente tasse e imposte in Europa».
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