La legge di bilancio è andata in porto senza il ricorso (nel passaggio decisivo alla Camera) al famigerato “maxiemendamento” con cui il governo di turno è solito riscrivere in extremis buona parte della sua stessa manovra economica per far quadrare i conti finanziari e politici, blindando il tutto con la questione di fiducia. Il “maxiemendamento” è un obbrobrio giuridico in quanto la Costituzione prevede che i disegni di legge siano approvati articolo per articolo e non in blocco. La sua mancanza andrebbe quindi salutata con favore se non fosse che in luogo di un unico emendamento monstre sono stati presentati dalla maggioranza cinque emendamenti (subito ribattezzati “mini-maxiemendamenti”) che riproducono in scala ridotta gli stessi vizi. Magra consolazione, quindi. Quel che anche stavolta non si è riusciti né a evitare né a ridurre è il cosiddetto “monocameralismo di fatto”, un tema su cui nei giorni scorsi si è puntualmente soffermato su questo giornale Eugenio Fatigante. Il meccanismo è ormai noto anche alle cronache non specialistiche: soltanto una Camera riesce a esaminare il testo varato dal Consiglio dei ministri, l’altra (in questo caso il Senato) ha appena il tempo di ratificare a scatola chiusa, sempre che si voglia rispettare il termine del 31 dicembre. A onor del vero la prassi è così consolidata che si fa fatica a considerarla un effetto indiretto: ormai quando inizia la sessione di bilancio, partendo una volta da un ramo del Parlamento e una volta dall’altro, si sa già come andrà a finire. Il fenomeno, anzi, si è ulteriormente radicalizzato, a causa di quello che un giovane e brillante giurista, Paolo Bonini, ha definito “monosedismo di fatto”. Bonini, che ha studiato soprattutto l’ambito dei decreti-legge e della loro conversione, lo spiega così: “Il provvedimento è sostanzialmente oggetto di analisi solo nella sede della commissione competente, non residuando di fatto il tempo, ovvero non essendoci la volontà politica (nel caso del maxiemendamento) per l’esame sostanziale dell’assemblea”. Dunque, afferma il giurista in una recente pubblicazione, “emerge come il Governo non si limiti più a guidare fisiologicamente la produzione normativa anche parlamentare, ma abbia ormai di fatto espugnato lo stesso Parlamento della sua funzione normativa residua, quella cioè della legislazione mediante emendamento dei disegni di legge governativi costituzionalmente dovuti e a tempi scanditi (conversione e bilancio)”.
Si tratta di un esito paradossale per un sistema che prevede il bicameralismo paritario, vale a dire una perfetta identità di funzioni per Camera e Senato. Nella storia dei progetti di riforma istituzionale il superamento di tale sistema è comparso più volte nella forma dell’abolizione di uno dei due rami del Parlamento o nella più realistica trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni e delle autonomie. Ci sarebbe però anche una via meno impattante e per questo più abbordabile nell’attuale contesto: l’ampliamento delle situazioni in cui il Parlamento si esprime in seduta comune. Per esempio proprio nell’approvazione della legge di bilancio. La riduzione del numero dei parlamentari agevolerebbe questa soluzione anche in termini operativi, dato che le Camere congiunte avrebbero lo stesso numero di membri che in precedenza spettava alla sola assemblea di Montecitorio.
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