martedì 7 luglio 2015
L’evangelizzazione può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie.
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La parola di Dio ci invita a vivere l’unità perché il mondo creda. Immagino quel sussurro di Gesù nell’ultima cena come un grido, in questa Messa che celebriamo nella Piazza del Bicentenario. Immaginiamoli insieme. Il Bicentenario di quel grido di indipendenza dell’America Ispanofona. Quello è stato un grido nato dalla coscienza della mancanza di libertà, di essere spremuti e saccheggiati, «soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 213). Vorrei che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, ma una concordia che nasca “dalla gioia del Vangelo”, che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento» (ibid., 1), dalla coscienza isolata. Noi qui riuniti, tutti insieme alla mensa con Gesù, diventiamo un grido, un clamore nato dalla convinzione che la sua presenza ci spinge verso l’unità e «segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (ibid., 14). “Padre, che siano una cosa sola perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21): così Gesù manifestò il suo desiderio guardando il cielo. Nel cuore di Gesù sorge questa domanda in un contesto di invio: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,18). In quel momento, il Signore sta sperimentando nella propria carne il peggio di questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento, però non si nasconde, non si lamenta. Anche noi constatiamo quotidianamente che viviamo in un mondo lacerato dalle guerre e dalla violenza. Sarebbe superficiale ritenere che la divisione e l’odio riguardano soltanto le tensioni tra i Paesi o i gruppi sociali. In realtà, sono manifestazioni di quel “diffuso individualismo” che ci separa e ci pone l’uno contro l’altro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 99), frutto della ferita del peccato nel cuore delle persone, le cui conseguenze si riversano anche sulla società e su tutto il creato. Proprio a questo mondo che ci sfida, con i suoi egoismi, Gesù ci invia, e la nostra risposta non è fare finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità. A quel grido di libertà che proruppe poco più di 200 anni fa non mancò né convinzione né forza, ma la storia ci dice che fu decisivo solo quando lasciò da parte i personalismi, l’aspirazione ad un’unica autorità, la mancanza di comprensione per altri processi di liberazione con caratteristiche diverse, ma non per questo antagoniste. E l’evangelizzazione può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie. Certamente lo può essere e questo noi crediamo e gridiamo. Già ho avuto modo di dire: «Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci a portare i pesi gli uni degli altri» (ibid., 67). L’anelito all’unità suppone la dolce e confortante gioia di evangelizzare, la convinzione di avere un bene immenso da comunicare, e che, comunicandolo, si radica; e qualsiasi persona che abbia vissuto questa esperienza acquisisce una sensibilità più elevata nei confronti delle necessità altrui (cfr ibid., 9). Da qui, la necessità di lottare per l’inclusione a tutti i livelli, lottare per l’inclusione a tutti i livelli!, evitando egoismi, promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione. «Bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze … Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è artigianale» (ibid., 244). E’ impensabile che risplenda l’unità se la mondanità spirituale ci fa stare in guerra tra di noi, alla sterile ricerca di potere, prestigio, piacere o sicurezza economica. E questo sulle spalle dei più poveri, dei più esclusi, dei più indifesi, di quelli che non perdono la loro dignità a dispetto del fatto che la colpiscono tutti i giorni. Questa unità è già un’azione missionaria “perché il mondo creda”. L’evangelizzazione non consiste nel fare proselitismo – il proselitismo è una caricatura dell’evangelizzazione – ma nell’attrarre con la nostra testimonianza i lontani, nell’avvicinarsi umilmente a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, avvicinarsi a quelli che si sentono giudicati e condannati a priori da quelli che si sentono perfetti e puri. Avvicinarci a quelli che hanno paura o agli indifferenti per dire loro: «Il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore» (ibid., 113). Perché il nostro Dio ci rispetta persino nella nostra bassezza e nel nostro peccato. Questa chiamata del Signore con che umiltà e con che rispetto lo descrive il testo dell’Apocalisse: Vedi? Sto alla porta e chiamo; se vuoi aprire…; non forza, non fa saltare la serratura, semplicemente suona il campanello, bussa dolcemente e aspetta. Questo è il nostro Dio! La missione della Chiesa, come sacramento di salvezza, è coerente con la sua identità di Popolo in cammino, con la vocazione di incorporare nel suo sviluppo tutte le nazioni della terra. Quanto più intensa è la comunione tra di noi, tanto più sarà favorita la missione (cfr Giovanni Paolo II, Pastores gregis, 22) Porre la Chiesa in stato di missione ci chiede di ricreare la comunione, dunque non si tratta solo di un’azione verso l’esterno; noi siamo missionari anche verso l’interno e verso l’esterno manifestandoci come si manifesta «una madre che va incontro, una casa accogliente, una scuola permanente di comunione missionaria» (Documento di Aparecida, 370). Questo sogno di Gesù è possibile perché ci ha consacrato: «per loro io consacro me stesso – dice -, perché anch’essi siano consacrati nella verità» (Gv 17,19). La vita spirituale dell’evangelizzatore nasce da questa verità così profonda, che non si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo – una spiritualità piuttosto diffusa -; Gesù ci consacra per suscitare un incontro con Lui, da persona a persona, un incontro che alimenta l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione evangelizzatrice (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 78). L’intimità di Dio, per noi incomprensibile, ci si rivela con immagini che ci parlano di comunione, comunicazione, donazione, amore. Per questo l’unione che chiede Gesù non è uniformità ma la «multiforme armonia che attrae» (ibid., 117). L’immensa ricchezza del diverso, il molteplice che raggiunge l’unità ogni volta che facciamo memoria di quel Giovedì santo, ci allontana da tentazioni di proposte integraliste, più simili a dittature, ideologie o settarismi. La proposta di Gesù è concreta, non è un’idea, è concreta: “Va’ e fa’ lo stesso”, dice a quell’uomo che gli chiede: “Chi è il mio prossimo?”, dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano: “Va’ e fa’ lo stesso”. La proposta di Gesù non è neppure un aggiustamento fatto a nostra misura, nel quale siamo noi a porre le condizioni, scegliamo le parti in causa ed escludiamo gli altri. Una religiosità di élite… Gesù prega perché formiamo parte di una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo fratelli. Nessuno è escluso, e questo non trova il suo fondamento nell’avere gli medesimi gusti, le stesse preoccupazioni, gli talenti. Siamo fratelli perché, per amore, Dio ci ha creato e ci ha destinati, per pura sua iniziativa, ad essere suoi figli (cfr Ef 1,5). Siamo fratelli perché «Dio ha infuso nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio, che grida: Abbà!, Padre!» (Gal 4,6). Siamo fratelli perché, giustificati dal sangue di Cristo Gesù (cfr Rm 5,9), siamo passati dalla morte alla vita diventando «coeredi» della promessa (cfr Gal 3,26-29; Rm 8,17). Questa è la salvezza che Dio compie e che la Chiesa annuncia con gioia: fare parte di un “noi” che porta fino al “noi” divino. Il nostro grido, in questo luogo che ricorda quel primo grido di libertà, attualizza quello di san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). E’ tanto urgente e pressante come quello che manifestava il desiderio di indipendenza. Ha un fascino simile, ha lo stesso fuoco che attrae. Fratelli, abbiate i sentimenti di Gesù! Siate una testimonianza di comunione fraterna che diventa risplendente! E che bello sarebbe che tutti potessero ammirare come noi ci prendiamo cura gli uni degli altri, come ci diamo mutuamente conforto e come ci accompagniamo! Il dono di sé è quello che stabilisce la relazione interpersonale che non si genera dando “cose”, ma dando sé stessi. In qualsiasi donazione si offre la propria persona. “Darsi” significa lasciare agire in sé stessi tutta la potenza dell’amore che è lo Spirito di Dio e in tal modo aprirsi alla sua forza creatrice. E darsi anche nei momenti più difficili, come in quel Giovedì Santo di Gesù in cui Lui sapeva come si tessevano i tradimenti e gli intrighi, ma si donò, si donò, si donò a noi con il suo progetto di salvezza. L’uomo donandosi si incontra nuovamente con sé stesso, con la sua vera identità di figlio di Dio, somigliante al Padre e, in comunione con Lui, datore di vita, fratello di Gesù, del quale rende testimonianza. Questo significa evangelizzare, questa è la nostra rivoluzione – perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria – questo è il nostro più profondo e costante grido.

 

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