Due errori fondamentali, uno di metodo e l’altro di merito, condizionano oggi il futuro dei voucher e, più in generale, quello della normativa sul lavoro.
Il primo sbaglio riguarda la strategia politica del governo e più specificamente del Partito democratico che lo guida. Stretto fra la pressione della Cgil da un lato e la "concorrenza" a sinistra degli scissionisti di Mdp dall’altra, il partito di maggioranza relativa appare non solo in difficoltà, ma soprattutto in confusione. Tanto da presentare alla Camera un emendamento che abolisce sic et simpliciter i buoni lavoro, così come chiedeva il sindacato guidato da Susanna Camusso e come avverrebbe in caso di vittoria dei Sì al referendum.
Governo e Pd temono la sconfitta nelle urne
A prevalere, insomma, è la paura di un altro bagno di sangue nelle urne, dopo quello del dicembre scorso, e per esorcizzarne il rischio non si trova di meglio che arrendersi preventivamente. È tale la fretta di farlo che il Consiglio dei ministri oggi potrebbe trasformare addirittura in decreto il disegno di legge che azzera l’uso dei voucher. Un alzare "bandiera bianca" che rappresenta la rinuncia a esercitare il proprio ruolo di governo, inteso come capacità di gestione dei problemi, di capacità di trovare soluzioni non traumatiche. Di fatto, la via intrapresa è l’antitesi del riformismo. Si dirà che si tratta di un aspetto tutto sommato limitato, ma c’è da chiedersi cosa sarebbe avvenuto, come si sarebbero comportati il Pd e il governo, se la Consulta non avesse bocciato il quesito sull’articolo 18: avrebbero rinnegato il Jobs Act pur di non impegnarsi in una (questa sì, difficile) competizione referendaria?
L'errore di metodo: i voucher snaturati
Il secondo errore fondamentale riguarda la natura dei voucher ed è l’equivoco che ha fatto deragliare il dibattito su come modificare lo strumento. I buoni nascono – su intuizione di Marco Biagi – per remunerare in maniera trasparente e semplice il lavoro «occasionale e accessorio». Cioè quello svolto in maniera episodica e che non riguarda l’attività primaria del datore. È stata la cancellazione di questi requisiti, operata con la riforma Fornero, a snaturarli da un lato e a farne esplodere l’utilizzo improprio dall’altro. Ciò che occorre domandarsi, dunque, non è chi possa usarli, ma per che cosa si possano utilizzare. Il discrimine per una riforma non deve partire dalla categoria di datori (famiglia, impresa, ente non profit) o di prestatori (studenti, casalinghe, disoccupati), ma dalla natura dell’attività e dello scambio che avviene tra gli uni e gli altri. Basta qualche esempio per intendersi: una catena di fast food non può e non deve pagare con i voucher un ragazzo che frigge le patatine, perché quel lavoro riguarda propriamente la sua attività e risponde a una necessità continuativa. Se invece per due occasioni in un anno volesse volantinare in piazza potrebbe, anzi dovrebbe pagare con i voucher (e non in nero) degli studenti per farlo. Così pure, è sbagliato che un’azienda agricola paghi gli operai per la vendemmia con i buoni, mentre è auspicabile che lo faccia l’impiegato che vuole raccogliere l’uva della vigna del nonno con l’aiuto di qualche conoscente. Un bar non può e non deve remunerare i camerieri con i voucher, perché la loro prestazione è propria dell’attività commerciale esercitata dal barista, ma se quest’ultimo in primavera avesse bisogno di ripulire a fondo il magazzino potrebbe, anzi dovrebbe pagare con i buoni (e non in nero) il lavoro di chi gli rende questo servizio.
Solo per i lavori occasionali e accessori
Riportare i buoni alla loro vera natura di pagamento trasparente e semplice per il lavoro «occasionale e accessorio» significherebbe quindi evitare in maniera intelligente i due rischi speculari: quello di far rinascere forme di lavoro nero, se i voucher venissero aboliti del tutto; dall’altro accrescere a dismisura l’area dell’informalità e della precarietà come sta avvenendo adesso. Su quest’ultimo pericolo la Cgil ha pienamente ragione: l’uso generalizzato dei voucher ha conseguenze che vanno ben oltre il loro peso – limitato rispetto al totale delle ore lavorate – perché finisce per svalutare il lavoro stesso e destrutturare i rapporti, riducendo il contratto a un implicito e mero accordo monetario, senza altre tutele e scambi. Per questo, mesi fa, abbiamo suonato anche noi, e tra i primi, un forte allarme.
La risposta di un governo, però, non può essere quella di buttare tutto a mare. L’esecutivo ha il dovere di individuare un’alternativa credibile al quesito referendario, sulla quale misurarsi. Non è difficile, ma per farlo occorrono lucidità e coraggio.