«Siamo sull’orlo del baratro». «Quello, fa sul serio». E il Parlamento europeo che invita a pensare contromisure in caso di conflitto nucleare. Roba che dovrebbe toglierci il sonno. «Sì, ma sono solo nucleari tattiche – spiegano i bene informati – possono distruggere, al massimo, un’area estesa come il centro di una grande città». Beh, dici poco. Per non pensare al fall out, alle radiazioni che dall’Ucraina si allargherebbero nel continente, verso est e verso ovest. Per non parlare della risposta che dall’altra parte verrebbe data all’uso di quell’arma. “Solo” una nucleare tattica sarebbe, o la miccia pronta ad accendere e riaccendere le batterie di missili schierati a Kaliningrad, e sui sommergibili nucleari che navigano negli oceani? Come il russo Belgorod, un mostro lungo 180 metri sotto le acque del Baltico, in grado di colpire a 10 mila chilometri di distanza con testate nucleari? Nei bar, chi accenna a queste faccende viene zittito. Come quando si tocca un argomento sconveniente. Su, via, cose impossibili. Obietta qualcuno: « Eppure il Papa ha gridato: fermatevi!».
Gli avventori scuotono la testa, tranquilli: « Massì, massì: però, chi sarà così folle da iniziare?» (In realtà, pensi tu mestamente, il mondo di folli è pieno, Neanche i carri armati russi dovevano mettersi in moto davvero...). Vivere come se. Come se certi sussurri e grida che autorevolmente si sollevano non fossero da prendere sul serio. Siamo noi che non ci vogliamo, non ci possiamo pensare. E non ci pensiamo. Sul tram a Milano senti discutere, sui cellulari, di bollette avide, dell’Inter, quest’anno così disgraziata, persino di seni da rifare, ma non della minaccia nucleare. In via Montebello, alla Questura, gli immigrati stanno pazienti in coda per il permesso di soggiorno. L’Italia conquistata, finalmente, dopo tanto viaggiare, e tanta fatica, e paura. Una guerra nucleare? Alzerebbero forse le spalle: perché mai questi occidentali, così ricchi, dovrebbero distruggersi? Il problema è invece ottenere quel preziosissimo, agognato permesso per abitare il Primo Mondo.
E chi può intanto prenota viaggi di Natale su isole caraibiche o sulle Dolomiti ( gli hotel sulla neve, per le feste già quasi al completo). Gli studenti affollano di nuovo le Università. Cinque anni almeno per la laurea. Quanto studiare. Ma, se? No, via, è assurdo, non può accadere, non siamo in un film apocalittico. E questi dolcissimi bambini che escono dal nido alle tre e cercano ancora assonnati la mamma, barcollando su passi incerti? Tutta la vita davanti, e quel fantasma nero addosso, di cui non sanno. Non devono sapere. Loro; ma, noi? Molte mamme e padri e nonni pregano, la sera. E magari, assieme ad altri, manifestano pubblicamente e si preparano a farlo più forte. Chi ha figli e nipoti è più pensieroso.
Chi non ne ha non sa quanto crudele è il dubbio di un futuro che spogli quei figli di ogni certezza. Ma sono tanti ormai, a non avere figli: e forse del mondo, se finisce con noi, ci importa di meno. Comprare, programmare, costruire, sposarsi – vivere come se. Cento gru a nord di Milano, a Cascina Merlata, alzano una nuova audace città di vetro e acciaio. La vedi arrivando dall’autostrada. Che investimenti, che opera, che certezza del futuro, in quei cristalli lucenti all’ultimo sole di ottobre. Ti passa negli occhi, rapida e oscura come una clandestina, l’immagine di certe città ucraine con le finestre sventrate dalle esplosioni, nere orbite vuote.
Ma via, che ti viene in mente. Queste cose non le devi pensare, né soprattutto dire. Così come quando, se si parla di morte, qualcuno subito con una battuta sorridente tronca il discorso. Di morte, si sa, non si parla. Tantomeno di una guerra che la moltiplicherebbe per cento, per mille, come una variabile impazzita. Vivere come se, dunque: sembra che altro non sappiamo fare. È impotenza, pigrizia, ignavia? O forse la sola difesa del nostro sistema immunitario collettivo. Cosa c’è stasera in tv? Dove andiamo domenica, a mangiare?