martedì 20 dicembre 2011
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Entrare in un carcere e non vedere l’ora di uscirne è un tutt’uno. Dietro quelle mura grigie, dietro il clangore di quei cancelli, perfino l’aria che si respira sembra più pesante. Un senso di oppressione invincibile, che le chiacchiere facilone, più da bar che politiche, sul 'buttar via le chiavi', ignorano. Il mondo diviso in chi ha sbagliato e chi no (o l’ha fatta franca). Punto. La sesta opera di misericordia corporale, «Visitare i carcerati», quasi scomparsa dall’orizzonte cristiano benpensante (si può definire così?), e lasciata ai parenti dei detenuti. A quelli, ancora, che lo fanno. In un carcere, per la seconda volta in sei anni, Benedetto XVI c’è entrato. E mentre attraversava il corridoio centrale della cappella intitolata al «Padre nostro», quello spazio riempito di applausi e mani tese, di grida di «viva il Papa» e di gente che si accalcava verso il centro, per farglisi più vicino, non sembrava tanto diverso dall’aula delle udienze, in Vaticano. Detenuti, invece di pellegrini. Alla fine non sono usciti su piazza San Pietro, ma nel ben più piccolo 'Borgo nostro', la piazzetta dove i più fortunati possono incontrare le loro famiglie. Solo il tempo di salutare ancora il Papa, un’ultima volta, prima di tornare in cella. A Benedetto XVI, in un inedito colloquio fatto di domande e risposte, hanno chiesto dignità, solidarietà, speranza. Hanno chiesto aiuto per ritrovare un’umanità che condizioni oggettive, prima di tutto il sovraffollamento, e psicologiche, il rifiuto sociale da cui si sentono circondati, sentono loro negata. Hanno dichiarato «ti voglio bene», e si sono sentiti rispondere «anche io vi voglio bene». E c’è da scommettere che, quando domani, o tra dieci, vent’anni, avranno l’opportunità di raccontare questa giornata, magari ai loro nipoti, non diranno dell’appello per umanizzare le carceri o risolvere il problema del sovraffollamento. Quella è roba per noi, che stiamo fuori. Loro diranno: «Quel giorno ci ha detto: 'Anche io vi voglio bene'». Benedetto XVI, con la sua semplice immediatezza, ci ha restituito in un gesto il senso di quel 'visitare i carcerati' così terribilmente démodé. «Siamo caduti – ha detto loro – ma siamo qua per rialzarci». Siamo, non siete. Ognuno può cadere. Ma ognuno ha diritto al riscatto. E a tutelare quel diritto dev’essere ciascuno di noi. In ogni momento, anche quando si parla dei detenuti «in modo così feroce come a volerci escludere dalla società», ha denunciato quasi piangendo uno di loro,

Federico. Gli ha risposto: «Dobbiamo sopportare, parlano in modo 'feroce' anche contro il Papa, e tuttavia, andiamo avanti». 'Visitare i carcerati', nel gesto di Papa Ratzinger, è diventato così un abbraccio vero, uno sporgersi verso fratelli le cui colpe non possono, non devono, diventare un destino, ma l’inizio di un cammino. Benedetto XVI l’ha detto nel modo più semplice possibile, con la sua presenza e con una frase un cui tutto è stato riassunto: «Vorrei potermi mettere in ascolto della vicenda personale di ciascuno, ma non mi è possibile; sono venuto però a dirvi semplicemente che Dio vi ama di un amore infinito». Certo, 'infinito' non è una misura umana. Ma può diventare, o meglio, ritornare a essere, una misura ideale del nostro essere cristiani. «Mi sembra importante incoraggiare tutti che pensino bene, che abbiano senso delle vostre sofferenze, abbiano il senso di aiutarvi nel processo di rialzamento e, diciamo, io farò la mia parte per invitare tutti a pensare in questo modo giusto, non in modo dispregiativo, ma in modo umano», ha detto il Papa. Se ciascuno di noi, nel proprio piccolo, raccogliesse questo invito, già questo sarebbe un primo passo per ritornare a visitare i carcerati.

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