È singolare, ma è così. I viaggi di Francesco finiscono sempre davanti a un’icona, quella della Salus Populi Romani. E anche questa volta, di ritorno ieri mattina dal Policlinico Gemelli, lì è andato a fermarsi prima del rientro a casa. Come a dire che anche da questo "viaggio" è tornato.
Perchè anche questo, in questo 2021, dopo quello in Iraq, è stato un altro viaggio per il Papa. Un viaggio altro in un altro continente: quello umano della sofferenza e della cura.
Di sofferenza e cura ha infatti parlato all’Angelus di domenica nel caldo torrido di una domenica di luglio affacciandosi da un balcone del Gemelli. Non ha voluto lasciare – diciamo così – il dolore da solo: lo ha unito alla cura, perché è esattamente in questo modo che nel Vangelo li troviamo congiunti, perché questo è il Vangelo. Ricordando appunto quel passo dove si legge che i discepoli di Gesù "ungevano con olio molti infermi e li guarivano" ha sottolineato che questo olio "è anche l’ascolto, la vicinanza, la premura, la tenerezza di chi si prende cura della persona malata: è come una carezza che fa stare meglio, lenisce il dolore e risolleva". Citando poi ancora una volta il passo di Matteo 25, dove nel "protocollo del giudizio finale una delle cose che ci domanderanno sarà la vicinanza agli ammalati", da quel balcone d’ospedale ha voluto parlare con accanto alcuni piccoli compagni di degenza. E appena ha potuto spostarsi dal suo letto al decimo piano si è subito portato nell’ala del reparto di Oncologia pediatrica.
Una breve distanza è stata così la seconda tappa del suo viaggio apostolico che lo ha visto entrare nel mondo immenso del dolore, con quel silenzio in cui, come aveva già detto più volte, "la cosa più importante è lo sguardo... la forza è lì: lo sguardo amoroso del Padre".
Cura. È parola che per il Papa è sinonimo di Dio. Nel Messaggio per la XXIX Giornata mondiale del malato, l'11 febbraio scorso, aveva scritto: "In effetti, dal mistero della morte e risurrezione di Cristo scaturisce quell'amore che è in grado di dare senso pieno sia alla condizione del paziente sia a quella di chi se ne prende cura. Lo attesta molte volte il Vangelo, mostrando che le guarigioni operate da Gesù non sono mai gesti magici.
Sono sempre il frutto di un incontro, di una relazione interpersonale, in cui al dono di Dio, offerto da Gesù, corrisponde la fede di chi lo accoglie, come riassume la parola che Gesù spesso ripete: "La tua fede ti ha salvato". "La malattia – aveva aggiunto – ha sempre un volto, e non uno solo: ha il volto di ogni malato e malata, anche di quelli che si sentono ignorati, esclusi, vittime di ingiustizie sociali che negano loro diritti essenziali". La pandemia ha fatto emergere tante inadeguatezze dei sistemi sanitari e carenze nell’assistenza alle persone malate. Ai più deboli e vulnerabili non sempre è garantito l’accesso alle cure e non sempre lo è in maniera equa.
Il Papa è andato ripetendo che "serve il vaccino per il cuore: e questo vaccino è la cura", perché "non siamo al mondo per morire, ma per generare vita" e "non serve conoscere tante persone e tante cose se non ce ne prendiamo cura". È perciò "importante educare il cuore alla cura, degli altri, del mondo, del creato".
Con il viaggio reale e simbolico nel luogo umano della sofferenza, Francesco l’ha rimessa al centro rendendo anche testimonianza grata l’aver "sperimentato", in questi suoi "giorni di ricovero in ospedale", "quanto sia importante un buon servizio sanitario gratuito, accessibile a tutti". Una lezione di "cultura della cura".