Perché, ogni volta che sembra possibile allentare un poco le regole per il contenimento del contagio, ci si riversa a mettere in atto comportamenti dai quali pare che, dopo ormai un anno di esperienza, non abbiamo imparato nulla? C’è dentro questo atteggiamento un groviglio di cose buone e naturali insieme ad altre che mostrano tutti i nostri umanissimi limiti. Il Vangelo, quando ci dice che grano e zizzania crescono assieme, ha purtroppo sempre ragione.
La forza migliore, quella che ci spinge nelle braccia degli altri e che fa saltare in aria le misure 'antiassembramento', è la nostra voglia di relazione. Ma deve essere veramente tale. Non può essere solo un atteggiamento per cui al centro di tutto c’è l’individuo e gli altri esistono solo come un 'passaggio' provvisorio al termine del quale io ritorno semplicemente su me stesso magari anche un po’ migliorato, ma comunque sempre solo.
Capire, dopo un dialogo con gli altri, che comportamenti sbagliati e pericolosi possono essere anche i miei e non solo sempre quelli degli altri è certo un’acquisizione importante eppure non è sufficiente. È necessario approdare, a mio parere, a quella che il sociologo Pier Paolo Donati chiama «una visione relazionale della vita sociale». La frase di papa Francesco divenuta ormai uno slogan, quella per cui spetta a noi stessi decidere se uscire dalla pandemia come persone peggiori o migliori, in pratica significa comprendere che la società non è un insieme di individui, e quindi che la moralità non sta nell’individuo, ma che il prodotto della reciprocità nasce dal guardare a quel bene comune che è il bene relazionale esistente fra me e gli altri. Sullo sfondo di questo ragionamento c’è l’idea di bene comune, cioè la vita degli altri che dipende anche da me. Tuttavia questa idea è difficilissima da cogliere perché è presente dappertutto, ma è invisibile.
È un po’ come l’aria di cui nulla si sapeva nell’antichità. I nostri avi conoscevano l’esistenza del vento, o del respiro, ma non di quell’atmosfera che circonda la Terra come uno scudo invisibile e che altro non è se non l’aria che respiriamo. I bene relazionali stanno stretti nelle categorie che li definiscono come pubblici o privati, o bene di primo, di secondo o di terzo settore: i beni relazionali sono semplicemente l’unico luogo dove può essere amato ciascuno di noi. Il bene relazionale è qualcosa che ridonda a beneficio dei partecipanti senza che nessuno possa usufruirne da solo. In campo economico, per esempio, è facile comprendere che in teoria l’amicizia rende più facili gli scambi ma questa amicizia da dove viene? Chi la crea? Perché fare amicizia durante le transazioni?
E quando essere amici contrasta con i criteri dell’efficenza o della redditività cosa succede? Lo stesso problema si pone in tutti gli altri campi. Pensiamo a cosa accade nelle burocrazie pubbliche dove, anzi, l’amicizia fa a pugni con gli obblighi e le aspettative di chi rispetta i ruoli delle gerarchie organizzate. Né l’economia né la burocrazia producono di per sé il bene relazionale dell’amicizia, né è possibile progettare un meccanismo che la generi in automatico. E questo è vero anche se si tratta non di economia, ma di una famiglia o di una comunità o di una associazione. Il bene relazionale – l’amicizia è appena un esempio – è quel bene che può essere ottenuto solo attraverso la relazione con gli altri e di cui si può godere solo se ne godono tutti.
Questo bene invisibile, immateriale e necessario come l’aria per rendere migliore la nostra vita, non può essere frutto di un contratto di compravendita né può essere generato da norme e leggi, perché se così fosse cesserebbe di essere libero. Può essere causato solo da uno specifico lavoro, personale e comunitario, frutto di una riflessione ad hoc. Se, dopo un anno di pandemia non abbiamo capito che questo è il problema di cui dobbiamo trovare la soluzione quando il coronovirus sarà passato, ci troveremo peggio di prima in tutti i sensi, materiali e spirituali.