Venticinque anni senza Giovanni Falcone. Occasione di riflessione, anche dura. Proprio mentre "cosa nostra" torna a uccidere, in un’inquietante coincidenza. Negli ultimi anni abbiamo scritto, quasi costretti, più di antimafia che di mafia. I giornali, i tg e soprattutto il web, si sono riempiti di accuse, dietrologie, veleni contro chi, nella società civile, è stato ed è ancora in prima fila nel contrasto alla criminalità organizzata. Accuse alcune volte vere, giustificate, documentate, che hanno accompagnato inchieste sacrosante, molto più spesso schizzi di fango o una sorta di gara a chi sia più puro, più erede di chi ha dato la vita, come Falcone e poche settimane dopo Paolo Borsellino. Accuse e delegittimazioni che ci riportano indietro a quegli anni.
E mentre, purtroppo, accade tutto questo, 'cosa nostra' torna a farsi vedere e sentire. C’è e spara, la mafia. In pieno giorno, in mezzo al traffico, davanti a una scuola. Scena d’altri tempi, scena attualissima. Quello del boss Giuseppe Dainotti, ucciso ieri mattina nel centro di Palermo è un omicidio 'simbolico', come lo ha definito il procuratore Francesco Lo Voi, aggiungendo che «quando qualcuno ritiene che la mafia non c’è più o che è stata debellata, succede qualcosa che conferma che la mafia è sempre là». E proprio per questo «occorre riprendere e far proprio lo spirito e i criteri dell’impegno» di Falcone. Sono le chiare parole del presidente Sergio Mattarella, ieri al plenum del Csm. Un impegno che molti allora non tolleravano, osteggiavano. Anche tra chi oggi cita come eroe il magistrato ucciso a Capaci.
«Ho tollerato in silenzio, in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa, le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro», scriveva Falcone il 30 luglio 1988 in una lettera al Csm che sei mesi prima aveva preferito a lui il collega Antonino Meli, per la guida dell’ufficio istruzione di Palermo, come successore di Antonino Caponnetto, il padre del 'pool antimafia'. Una scelta burocraticamente ineccepibile, ma operativamente sbagliata e umanamente colpevole. Bene ha fatto, dunque, l’attuale Csm a decidere di desecretare tutti i documenti del proprio archivio relativi a Falcone e alla moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato. Perché, come ha ammesso il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, «qui, a Palazzo dei Marescialli, sono state scritte alcune delle pagine più sofferte della storia dell’ordine giudiziario nell’epoca repubblicana». Insomma «basta nebbia», ha aggiunto Legnini. Nebbia su una decisione per la quale, ha accusato Maria Falcone, sorella del giudice, «Giovanni cominciò a morire». Lo aveva detto proprio lui. «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».
Lo Stato, nel senso più ampio del termine, non protesse Falcone e non protesse Borsellino. Sottovalutazioni? Colpe? Complicità? C’è ancora molto da capire. Le inchieste e i processi potrebbero dare risposte. Ma non basta. Il boss ucciso ieri, condannato all’ergastolo, era uscito dopo 25 anni. Tutto corretto. La legge lo prevede. Ancora una volta burocraticamente ineccepibile. Come con Falcone. Ma con la fredda burocrazia non si vincono le mafie, anche perché è facile nascondere dietro ben altri interessi. E comunque la mafie sanno come approfittarne. Così come sicuramente approfittano della pericolosissima gara al "sono più antimafioso di te". Perché anche questo dovette subire Falcone (lo accusarono, "fuoco amico", di tenere nei cassetti le carte sui politici collusi…) e anche questo stanno subendo persone e associazioni che tanto hanno dato e stanno dando sul fronte del vero e concreto contrasto ai clan. Un vero regalo alle mafie! Oggi come allora. E le mafie sono ben vive, pur se colpite duramente. Lo ha ricordato recentemente ai candidati a sindaco di Palermo, l’arcivescovo Corrado Lorefice. «Noi palermitani spesso viviamo con un basso senso civico, una grande sfiducia nelle istituzioni e un 'debole senso di legalità', fenomeno questo alimentato da una presenza invasiva della criminalità mafiosa e di reti di potere antagoniste rispetto allo Stato, che continuano a prevaricare nella società palermitana attraverso tante forme di abuso, di evasione, di corruzione. Ne siamo tutti responsabili». A Palermo come in tante altre città. È, dunque, ancora più pericoloso e colpevole spaccare il fronte antimafia, fronte di responsabilità e di impegno. Non è così che si fa vera memoria di Giovanni e dei suoi 'fratelli': Borsellino e tutti gli altri eroi civili e cristiani della lotta alla piovra.