martedì 8 marzo 2016
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Giunto a Bruxelles per un vertice cruciale sul problema dei migranti, il premier turco Davutoglu reclama un accesso più veloce ai visti Schengen per i cittadini turchi e un processo accelerato per la richiesta di adesione all’Unione Europea del suo Paese. E altri soldi, ovviamente, oltre quei tre miliardi di euro già previsti dalla Ue. Non è un problema: per impedire ai migranti irregolari di arrivare in Europa attraverso la rotta balcanica non si bada certo a spese. Non fosse che quel fiume di soldi ancora non si vede. «Sono in ritardo di quattro mesi – si è lagnato il presidente Erdogan –, devono ancora consegnarli. Spero che Davutoglu torni da Bruxelles con il denaro».Vista così, la trattativa fra Ankara e Bruxelles potrebbe inquadrarsi nella più piatta delle routine, essendo la Ue maestra di compromessi e di accomodamenti – soprattutto di retrobottega – quanto i turchi sono maestri nell’alzare la posta all’ultimo istante. Ma c’è un piccolo particolare che stona in questo quadro altrimenti inscrivibile nella norma: il leader turco giunge nel cuore dell’Europa di Schengen, dei Trattati di Roma, di Lisbona, dei Criteri di Copenaghen all’indomani di un’incursione della polizia nella sede del più diffuso e popolare quotidiano turco, Zaman, (600.000 copie vendute al giorno), sostituendo al direttore e ai suoi giornalisti un nuovo editore e un nuovo direttore, questa volta di provata fede governativa. Già perché il crimine commesso da Zaman è quello di ispirarsi al movimento politico Hizmet, vicino al religioso islamista moderato Fethullah Gülen, un tempo alleato di ferro di Erdogan e oggi suo avversario acerrimo e costretto a un esilio negli Stati Uniti. Non è una novità: analogo provvedimento era stato preso alla vigilia delle elezioni anticipate del 1° novembre scorso per i legami di Gülen con il gruppo editoriale Ipek, che controllava i canali tv Bugun Tv e Kanalturk e i quotidiani Bugun e Millet, chiusi definitivamente nei giorni scorsi, ma non possiamo dimenticare il migliaio di arresti in occasione della rivolta di Gezi Park (una protesta essenzialmente pacifica e condotta da giovani universitari di Istanbul e Ankara), l’incarcerazione di giornalisti rei di aver raccontato semplicemente i fatti, la censura su internet e l’oscuramento dei social network, l’arresto del direttore del quotidiano di opposizione laica Cumhuriyet, accusato di spionaggio per aver pubblicato un reportage nel quale si dava conto di un passaggio di armi destinato ai ribelli siriani (e forse allo stesso Daesh) in funzione anti-curda. L’elenco potrebbe continuare ancora, ma crediamo che possa bastare. Per lo meno a concludere che alcune delle libertà fondative delle democrazie moderne – e quella di espressione, e quindi anche quella di stampa è fra queste – non fanno parte del corredo ideologico di Recep Tayyp Erdogan, la cui figura rischia di somigliare ogni giorno di più alla caricatura di un satrapo impaurito e isolato, gettando un’ombra sinistra sull’uomo politico che aveva trionfalmente portato al successo il partito islamico 'moderato' di cui era leader ricavandone tre plebiscitarie vittorie elettorali. «Occorre – dice l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri della Ue Federica Mogherini – che la Turchia risponda, in qualità di Paese candidato, alla richiesta di rispettare gli standard più elevati nel campo della democrazia, dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali, a partire dalla libertà di espressione e di associazione». Parole giuste, princìpi inderogabili. Ma come la mettiamo con quella Realpolitik che inesorabilmente condiziona le scelte dei leader delle grandi democrazie fino a oscurare le ragioni ideali sulle quali quelle democrazie vennero fondate? La crisi siriana e la minaccia del Califfato nero ci costringono a una vicinanza economica e politica con l’Arabia Saudita (la stessa che ogni anno fa shopping di armi per 90 miliardi di dollari, comprese le bombe a grappolo, e tra esse, forse, quelle che nel colpevole silenzio di una troppo grande parte del mondo hanno fatto strage di suore dedite ai poveri e ai disabili ad Aden, nello Yemen qualche giorno fa) o con l’Egitto (il cui trattamento riservato alla stampa e alla libertà d’espressione rivaleggia con quello turco). Forse un giorno la Turchia entrerà davvero a far parte della Ue. È un grande popolo, quello turco, che certamente si meriterebbe governanti più lungimiranti. Così come l’Europa – idealmente – non merita di accogliere la Turchia nel suo grembo con gli occhi bendati e il naso turato in cambio di una ben remunerata 'cortesia' alle proprie frontiere.
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