Tempo fa mi trovavo sul lungomare di Procida con un confratello: un ragazzino nei paraggi urla una bestemmia; il confratello lo accosta e gli chiede discretamente conto di quelle parole; il ragazzo tace e scappa in bici. Poco dopo torna, trafelato e serio: chiede scusa e si trattiene a parlare, chiedendo chi fossimo e raccontando di sé.
Qualche notte dopo esco a richiamare un gruppo di chiassosi adolescenti che da giorni non lasciava dormire nessuno: domandano scusa con tono sommesso e dispiaciuto e vanno via. Piccoli episodi, rappresentativi del bisogno che i nostri ragazzi hanno di qualcuno che incoraggia, ma anche corregge e rispettosamente sfida. L’esercizio della correzione, invece, è sotto embargo: raro sia nella pratica pedagogica sia nelle relazioni interpersonali, perfino all’interno della stessa comunità cristiana; eppure, Gesù nel Vangelo lo raccomanda come esercizio di fraternità (Mt 18, 1517).
Anche nella Lettera agli Ebrei è scritto che il Signore, come un padre, corregge i suoi figli e in questo esprime amore. Con estremo realismo l’autore evidenzia che ogni correzione, sul momento, non causa gioia ma tristezza; dopo, però, essa arreca un frutto di pace (Eb 12, 57.11-13). «Un’educazione realistica – scriveva il cardinale Martini – esige anche l'intervento correttivo… Occorre trovare il modo giusto, ma non rinunciare alla correzione».
Perché, allora, correggere qualcuno è diventato così difficile e inusuale? La correzione non è forse un modo di esprimere il bene che vogliamo, la responsabilità che abbiamo e sentiamo nei suoi riguardi? Non è forse dire che ci sta a cuore? Siamo sicuri che gli altri non vogliano la correzione in nessun caso? Certo, correggere è difficile: esige tempo, coraggio, libertà interiore, umiltà, pazienza, rispetto, desiderio di impegnarci in una relazione, vincendo la tentazione di rimanere in superficie e di “farci i fatti nostri”.
Per correggere in maniera saggia ed amorevole, dobbiamo vincere la paura di perdere l’altro, il suo affetto, il suo consenso, la sua stima… e questo costa. L’impressione, però, è che, per comprendere che cosa rende difficile l’esercizio della correzione, sia necessario chiederci se siamo noi stessi disposti a lasciarci correggere. Spesso, infatti, non si corregge o non si fa una buona correzione perché non si è disposti a riceverla. Le resistenze sono sia di tipo ideologico sia di tipo personale. Ad esempio: la mentalità che vede la correzione come espressione di autoritarismo o moralismo; le relazioni che sono caratterizzate da eccessiva suscettibilità, per cui la correzione passa per offesa personale e invadenza nella vita privata; la convinzione che nessuno deve dar conto a nessuno, di niente. In molti altri, poi, la correzione è difficile da accogliere per una debole autostima personale, per quanto gonfiata possa apparire esteriormente.
E se provassimo ad allenarci nuovamente nell’arte umanizzante del lasciarci correggere e del correggere? Non sarebbe anche questo un modo di ricostruire i legami, imparare il rispetto e custodire la fraternità? A proposito: giorni fa il ragazzino dell’episodio ricordato all’inizio è tornato sull’isola e mi ha riconosciuto, mentre rientravo a casa in auto: contento di vedermi, quasi entrava dal finestrino. Sono sceso per salutarlo e, ricordando me e il mio confratello, mi ha riempito di… belle parole.