Ma basta leggere tra le righe per capire che l’Iran, uscito apparentemente "piegato" per avere rinunciato alla tanto bramata arma nucleare, risulta invece il maggiore vincitore. E su diversi piani. Anzitutto, su quello economico, perché la fine dell’embargo significa per Teheran il ritorno nel Paese mediorientale degli investimenti occidentali, nonché una riammissione del petrolio iraniano sul mercato internazionale. Si parla, infatti, di 40 milioni di barili di greggio accumulati a bordo di petroliere del regime, pronti a essere venduti e consegnati non appena le sanzioni saranno rimosse. Non meno importante il successo sul piano geopolitico, con Teheran che soddisfa, grazie all’accordo, le sue ambizioni di potenza regionale. Che ci piaccia o no, gli avvenimenti politici degli ultimi anni hanno favorito, più o meno direttamente, il consolidamento della Repubblica islamica all’interno dello scacchiere mediorientale. Gli iraniani sono oggi implicati nel destino di molti popoli della regione: Teheran appoggia militarmente il regime siriano di Bashar al-Assad contro tutti i suoi oppositori, islamisti e non; esercita una notevole influenza sul governo iracheno e le sue forze armate, nonché sulle cosiddette Forze di mobilitazione popolare (al-hashd al-shaabi); ha legami strettissimi con l’Hezbollah libanese e con il movimento palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza; sostiene i ribelli houthi che occupano gran parte dello Yemen.
Tanti dossier regionali (ma se ne possono aggiungere altri) che l’avvento del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ha reso estremamente scottanti, sullo sfondo di una profonda spaccatura tra sunniti e sciiti, che sembra risuscitare quell’assurda controversia sulla legittimità dei primi califfi. In questo contesto, diventa difficile per numerosi Paesi della regione distinguere tra l’Iran della rigorosa dottrina sciita khomeinista e l’Iran delle istituzioni e del popolo. Anche per questo, l’accordo di ieri darà nuova linfa alla retorica sul complotto "safavide-crociato" contro i sunniti, tanto caro ai siti jihadisti. Non manca nemmeno chi vede dietro la fulminea espansione dell’Is in Siria e Iraq una diabolica regia degli ayatollah per premere su Washington. Come quell’editoriale pubblicato una ventina di giorni fa sul quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat (finanziato dai sauditi, altri nemici giurati di Teheran), in cui l’autore definisce la presa di Mosul nell’estate scorsa «una sceneggiatura dello studio cinematografico Qassem Suleimani», in riferimento al comandante delle Brigate speciali al-Qods dei pasdaran, che oggi "assiste" le truppe filo-governative irachene. «Le gravi minacce sanano così tanto bene i cuori – scriveva l’autore – che le divergenze sul nucleare sembrano cose futili».
Visto da Washington, l’accordo con l’Iran dovrà invece agevolare la lotta comune contro i jihadisti dell’Is. Un obiettivo, questo, gradito anche a Mosca, dato che il ministro Lavrov ritiene che l’accordo «rimuova gli ostacoli perché l’Iran possa far parte della coalizione internazionale contro lo Stato islamico». In senso più allargato, l’accordo dovrà agevolare l’instaurazione di un equilibrio nella regione. Ed è questo il primo banco di prova per Teheran: gli iraniani continueranno a essere "cattivi protagonisti" nel Medio Oriente oppure sceglieranno "la strada giusta"? Uno dei più ottimisti è il presidente della Camera libanese, Nabih Berri, lui stesso sciita, che ieri si è detto fiducioso riguardo i «prossimi frutti» dell’accordo. «Se un gatto viene stretto nell’angolo – aveva dichiarato tempo fa a un quotidiano libanese –, allora comincia a saltare sui muri. Ecco, imponendo un embargo contro l’Iran, il Paese ha finito per saltare su tutti i muri della regione». Il "muro" più evidente per Berri è quello iracheno, visto che l’Iran è diventato il Paese più influente a Baghdad, sebbene i due Paesi si siano affrontati in una lunghissima guerra negli anni Ottanta. Ora Berri prevede, come primo risultato dell’accordo, «un’accelerazione della soluzione» della crisi yemenita, anche se considera «molto più facile» partire dalla crisi istituzionale libanese. Il Paese dei Cedri è senza presidente della Repubblica da circa 14 mesi, con il Parlamento di Beirut incapace di raggiungere il quorum previsto dalla Costituzione per l’elezione di un nuovo capo dello Stato. La prossima convocazione (numero 26) è prevista proprio per oggi. Troppo presto per vedere gli effetti dei "buoni uffici" dell’Iran, visto che i deputati "astensionisti" appartengono quasi tutti a partiti vicini a Teheran, tra cui gli immancabili alleati Hezbollah.
Più intricata la soluzione alla guerra in Siria. Obama spera, ovviamente, che l’intesa sul nucleare possa incidere almeno nel tentativo di facilitare l’uscita di scena di Bashar al-Assad. Una speranza, più che una certezza. In ogni caso, si tratta di trovare un nuovo equilibrio senza cadere nell’estremo opposto. Riaccogliere l’Iran nel consesso delle nazioni non deve avvenire a spese di altri attori regionali, come la Turchia, l’Egitto o l’Arabia Saudita. Nel 2006, si è parlato di un "caos costruttivo" (Condoleezza Rice) da cui sarebbe nato un "Nuovo Medio Oriente". Oggi ricorre invece la parola "reassessment" dell’intera regione. Di cosa si tratta non sappiamo ancora, ma sappiamo che l’opinione di Teheran peserà molto su tutte le futuri soluzioni.