«Qui sparano. Ci vediamo in Paradiso. Stanno incendiando la casa. Se non vi risento, approfitto per chiedervi scusa delle mie mancanze e per dirvi che vi ho voluto bene. (p.s.: ho perdonato chi eventualmente mi ucciderà. Fatelo pure voi. Un abbraccio»). Notte del 7 settembre, missione cattolica di Chipene, nel nord del Mozambico. Uomini armati fanno irruzione e danno fuoco alla chiesa, all’ospedale, alle case. In un video le fiamme dentro i modesti locali bianchi ardono alte, divorano, trionfanti. In chiesa giace riversa suor Maria De Coppi, 83 anni, veneta, comboniana. Due sacerdoti fidei donum della diocesi di Concordia-Pordenone, pochi metri più in là sono accerchiati: spari, urla, passi che incalzano, le fiamme ormai addosso. Uno dei due, don Loris Vignandel, dal suo nascondiglio batte sul cellulare agli amici quelle scarne righe. «Ci vediamo in Paradiso... Vi ho voluto bene».
E poi il post scriptum: «Ho perdonato chi eventualmente mi ucciderà. Fatelo pure voi». Don Vignandel e il suo compagno sono scampati, sono vivi. Ma quelle parole pronunciate davanti a una morte vicinissima e apparentemente inevitabile dovrebbero indurci a fermarci. Per la certezza fiduciosa, fanciullesca, del «ci vediamo in Paradiso», quando sappiamo come nella paura il cuore degli uomini può disfarsi. Per quel dire: vi ho voluto bene – pochi secondi, altri spari. Per quel perdonare l’assassino che insegue, feroce. Perdonare, prima ancora che il suo braccio colpisca. Sembra, il messaggio in chat da Chipene, uno scarnificato testamento. Il senso e la direzione del proprio vivere, e morire; il cuore di un uomo, compresso in un istante. Non c’è più tempo per piccolezze o rimuginii, o rancori. Resta solo l’essenziale. Chiedo perdono, e perdono.
E «ci vediamo in Paradiso», come altri direbbero: ci vediamo al bar della piazza, domani. In un Paese remoto, e nell’angolo più sperduto di quel Paese, tra i più poveri, stare di fronte alla guerra e alla morte, da cristiani. Che cosa sbalorditiva, per un Occidente che da due anni non smette di tremare di paura per la pandemia, e, adesso, per una guerra che non vuole finire e anzi si gonfia, minacciosa. In quanti siamo, comprensibilmente, nella paura, all’idea che la pace, il lavoro, il nostro stesso mondo possa esserci tolto. Ma quel prete in una missione in fiamme, con la morte davanti, non grida di paura.
È in certe frazioni di secondo che si vede quali uomini, e donne, si è. In quel missionario, grazie a Dio poi scampato, l’ultima parola era, e resta, «perdono». Le ultime parole di suor Maria De Coppi non le conosciamo. A un amico parroco in Italia pochi giorni fa confidava: «Io credo in Quello lassù: a Lui nulla è impossibile ». Con la certezza granitica di una comboniana di 83 anni, nata dunque nel Veneto del 1939, e a vent’anni, già suora, partita in missione. Oltre mezzo secolo in Africa, a sfamare e curare bambini. Mezzo secolo a voler bene. Magari, chissà, qualcuno di quegli stessi ex bambini era nel commando, l’altra notte, assoldato dai jihadisti? «Pagano bene, e seducono i giovani », diceva recentemente suor Maria in un’intervista.
Chissà. Ma lei, riconoscendo nell’ultimo istante un figlio, pure non avrebbe perdonato? Storia grande di un’italiana di 83 anni, che a venti aveva già scelto, ed era partita. La sua casa nel paese natale c’è ancora, abbandonata, rudere coperto di edere. Impressiona quella casa così vecchia, segno tangibile di quasi un secolo passato. La vita di suor Maria è stata altrettanto lunga, e ostinatamente fedele. Cercava Cristo fra gli ultimi. È caduta nella buona battaglia, mentre i suoi compagni assediati promettevano agli amici: «Ci vediamo in Paradiso». Con una certezza che lascia, noi nell’ombra, noi nella paura, abbagliati.