Caro direttore,
forse è proprio vero che certe volte, più di tante disquisizioni vale un piccolo, semplicissimo episodio. Prenda il caso del valore della famiglia. Stamani, per strada, ho visto davanti a me un terzetto: lei, lui e, in mezzo, un bimbo di circa tre anni (da quel che mi han poi detto, ci avevo azzeccato). Il bimbo dava mano alla mamma, ma, quando è stato invitato a fare una corsetta, ha voluto stringere anche quella del papà, correndo così sorretto da tutti e due, contento come una Pasqua. Guardavo e sorridevo, ripensando a una scenetta da me vissuta nei vecchi locali della mensa ferrovieri di Torino e rimasta impressa nella mia mente da più di settant’anni: diversissima per il contesto, ma profondamente “uguale”. Era l’inverno del 1942: tornavamo dall’Astigiano, dove una zia si era offerta di tenermi (lontano dalla guerra, si pensava), ma io non avevo resistito alla nostalgia. Ed eccomi lì: in mezzo a mamma e papà, come un re sul trono. Gelo, bombardamenti, tessera annonaria... S’immagini che cosa e come ho potuto mangiare in quella sala fredda e quasi vuota. Ma è il ricordo di una delle più belle cene della mia vita... Preferirei non firmare queste righe, ma decida lei. Un cordiale saluto
Mario Chiavario
Grazie per questo piccolo quadro così delicato e forte, caro professor Chiavario. E grazie per aver lasciato a me una scelta che, posso garantirglielo, è stata senza esitazioni. Perché mai avrei dovuto nascondere la sua firma? Anche i grandi giuristi come lei sono stati bambini, e i migliori tra loro, i migliori tra gli uomini, qualunque mestiere facciano e ovunque vivano, non lo dimenticano e conservano l’allegria e il ragionevole pudore dei ricordi. Lei, con pochi tratti di penna, è riuscito a raccontare e far sentire il peso amaro della guerra, la forza e la bellezza della famiglia, l’attesa inesorabile e la gioia impossibile che possono riempire il cuore di un creatura che semplicemente cerca e ritrova gli affetti più cari, quelli che ci hanno generato alla vita. Per questo io non faccio fatica a immaginare, come tanti altri, la «sala fredda e quasi vuota» di un dopolavoro ferroviario nell’Italia grigia e nera del 1942. Per questo in tanti arriviamo ad assaporare la bellezza, e l’indimenticabile bontà, di quella sua cena magra e felice in una Torino segnata dal gelo, dalle bombe e consolata dal calore inspiegabile e unico del ritorno a casa. Per questo possiamo vedere il piccolino che vola, oggi, su un selciato di città con le mani strette a quelle di mamma e papà, il cuore che batte all’impazzata e i sorrisi che si fanno cascata di risa. E in quello stesso volo possiamo riscoprire lei piccino, e noi stessi, e i nostri figli e le nostre figlie, e i nipoti che sono venuti o potranno venire. Ha ragione, caro e gentile amico, ci dedichiamo e ci assoggettiamo per passione e per dovere a «tante disquisizioni», ma in realtà per incontrare la verità e farsi toccare da essa, per comprendere l’essenziale, ci basta semplicemente avere occhi e memoria e lo slancio consapevole di chi sa condividere, senza gelosie e senza arroganze. Vale sempre, ma persino di più in un tempo confuso e teso come questo che viviamo. Ancora grazie. E a lei e a tutti buona domenica.