Gli ultimi 10 giorni dell’attuale – interminabile – crisi di governo, caratterizzati dalle trattative dirette fra la Lega e il Movimento 5 stelle, stanno imprimendo una torsione alle regole consolidate del parlamentarismo italiano, con il rischio di svilire il ruolo delle istituzioni e di produrre una nuova e, per certi versi, inattesa svolta partitocratica.
L’attuale fase della crisi, com’è noto, è iniziata martedì scorso, quando ormai era data per imminente l’amara designazione da parte del Presidente della Repubblica di un "governo neutrale", che avrebbe dovuto consentire alle forze politiche di riflettere, durante un periodo di tregua post-elettorale, o di andare al voto già prima o subito dopo l’estate. Anche se con molto ritardo rispetto a quanto sarebbe stato auspicabile, M5s e Lega si sono seduti a un tavolo per negoziare un programma di governo e designare una compagine governativa, compreso il presidente del Consiglio e hanno ovviamente ottenuto "luce verde" dal Colle, pur con tempi che si sono rivelati assai più lunghi delle 24 ore inizialmente richieste dal leader della Lega. La questione della designazione del premier è stata derubricata a tema secondario ed è stata posposta alla ricerca di un accordo di programma. Si è enunciato come rivoluzionario questo metodo, affermando che per la prima volta nella storia repubblicana si sarebbe data la priorità ai "problemi dei cittadini" e non alle "poltrone". I leader delle due formazioni politiche premiate dal voto del 4 marzo si sono addirittura spinti a qualificare come meramente esecutivo del "contratto di coalizione" il ruolo del futuro premier, circa il quale sono circolate varie ipotesi, alcune delle quali veramente fantasiose. La sensazione tuttavia è che questo modo di procedere – forse giustificabile per avviare i negoziati fra i due partiti che aspirano a coalizzarsi – stia stravolgendo non solo le prassi costituzionali, ma anche lo stesso ruolo costituzionalmente previsto per il premier.
Ora, la forma di governo parlamentare italiana ha certo conosciuto, negli ultimi 70 anni (e anche prima, in epoca statutaria) diversi modelli di premier. In alcuni casi si è affermata una premiership all’inglese in cui il presidente del Consiglio era il chiaro e unico leader di un partito o di una coalizione (da Cavour a Giolitti, da De Gasperi a Berlusconi, da De Mita a Renzi). In altri contesti il premier era invece solo un primus inter pares (si pensi ai governi guidati da Moro e da Andreotti, o più recentemente da Prodi o da Gentiloni) o addirittura una figura secondaria, esponente di un partito minore (Spadolini), o mero coordinatore di un esecutivo di transizione (Leone, Goria, Amato II). E non sono neppure mancati casi di premiership nate deboli e cresciute prepotentemente durante la vita dell’esecutivo, sotto la pressione di circostanze eccezionali (si pensi ad Amato I e a Dini). La Costituzione consente questi diversi assetti. Quello che tuttavia richiede è che il presidente del Consiglio sia qualcosa di più dell’esecutore di un programma interamente definito da altri, e magari sorvegliato strettamente da due dioscuri nei panni di ministri o di vice-premier. La prassi costituzionale, la quale richiede (sin dai tempi dello Statuto albertino) che sia dapprima designato un presidente del Consiglio incaricato e che poi questi diriga i negoziati con i partiti che intendono formare il governo, corrisponde in effetti a un ruolo differenziato del premier: e ciò sia in sede di formazione del governo, in base all’articolo 92 (il premier è nominato dal Presidente della Repubblica e gli propone una lista di ministri) sia durante la vita di esso, dato che l’art. 95 gli attribuisce il compito di dirigere la politica generale del governo – di cui è responsabile – e di mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo dell’esecutivo.
Ciò è certo compatibile con un ruolo forte della sede collegiale di governo (dietro la quale possono ovviamente celarsi le delegazioni di partito), ma non con un ruolo meramente esecutivo di un programma alla cui definizione non abbia partecipato.
Ma vi è un secondo problema, oltre a quello del rapporto fra presidente del Consiglio e ministri: è quello del rapporto fra partiti e istituzioni. Questo non è certo un rapporto di totale alterità: anzi, il governo parlamentare di partito (ovviamente al plurale, in una coalizione) non solo consente, ma quasi richiede che i vertici delle istituzioni siano occupati dai leader delle forze di maggioranza. E tutta la storia della Repubblica post-bellica (1946-92) è stata percorsa dalla questione dell’immediata designazione dei ministri da parte dei partiti, che, si diceva allora, rischiava di "svuotare" l’autonomia del presidente del Consiglio nella scelta dei ministri, ben chiara nell’art. 92. Ora, però, si è davanti alla completa marginalizzazione del premier, il quale, fra l’altro, rappresenta l’Italia in quella sede cruciale che è il Consiglio europeo, ove occorre negoziare con altri 27 "pari" e dunque non si può solo eseguire un contratto. In questi giorni, l’occupazione partitica delle istituzioni giunge a un punto per cui il presidente del Consiglio diventa un personaggio in cerca d’autore, chiamato a recitare un copione già scritto. Se questo è l’atto di nascita della Terza Repubblica, non si può dire che essa nasca sotto gli auspici di una buona grammatica costituzionale.
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