Per il regime iraniano, opaco e repressivo, può valere la definizione che Churchill diede a proposito dell’Unione Sovietica come di «un enigma avvolto in un mistero». Un enigma divenuto ancora più fitto con il recente mistero del presunto complotto ordito da Teheran per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington. L’accusa, avanzata da alti funzionari dell’amministrazione statunitense, è stata ribadita due giorni fa dal presidente Obama in persona che ha ammonito: «Il governo iraniano pagherà un prezzo per questo». Il regime degli ayatollah ha una lunga storia di cospirazioni in particolare contro l’Arabia Saudita, grande alleato del "Satana americano" nella regione. Ma il piano che sarebbe stato organizzato da Teheran per eliminare il rappresentante del governo di Riad negli Stati Uniti è talmente strampalato da far sorgere dubbi sull’intera vicenda. «Accuse raggelanti e bizzarre», le ha definite il
New York Times, che non è certo un organo dei pasdaran. Tutto ruota attorno alla figura di Mansour Arbabsiar, un cittadino statunitense d’origine iraniana che avrebbe assoldato dei narcotrafficanti messicani per realizzare l’attentato. Gli amici lo descrivono come un alcolizzato che soffre di perdite di memoria, al punto di smarrire spesso telefonino e chiavi di casa. È su questo tipo totalmente inaffidabile che avrebbe puntato al-Qods, il braccio operativo dei Guardiani della Rivoluzione, gente ritenuta molto professionale, ma che questa volta commette l’incredibile errore di finanziare l’operazione con un bonifico bancario. E quando Arbabsiar contatta un trafficante di droga per organizzare l’assassinio, incappa in un agente della Cia infiltrato nei narcos (informatore o provocatore?) che sventa il piano omicida. La vicenda, come si può notare, presenta molte ombre. Se è vero infatti che i palazzi del potere di Teheran assomigliano al Cremlino sovietico, non si può neppure sostenere che la Casa Bianca sia il luogo della trasparenza. Tutti ricordiamo le false prove sbandierate dall’amministrazione Bush riguardanti le armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein. Ma questa volta non finirà con una guerra. A Washington nessuno pensa seriamente di attaccare militarmente l’Iran. L’obiettivo è invece quello di aumentare la pressione sul governo di Teheran, mobilitando l’opinione pubblica mondiale e inasprendo le sanzioni economiche per fermare la corsa degli ayatollah a dotarsi dell’arma nucleare. Tra un mese l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, farà conoscere il suo rapporto, particolarmente severo nei confronti di Teheran, rivela il giornale francese
Le Figaro. L’Aiea precisa che il rapporto non è ancora pronto, ma Obama ha deciso di giocare d’anticipo. L’Iran si trova sempre più in difficoltà. Sul piano interno, si acuisce lo scontro ai vertici tra la Guida Suprema, Alì Khamenei, cui fa capo al-Qods, ed il presidente Ahmadinejad, che vede con fastidio lo strapotere del clero. All’estero, le rivolte esplose con la primavera araba non stanno affatto giovando a Teheran, che vede minacciato il regime siriano di Assad, l’unico suo alleato in tutta la regione, e teme l’accresciuta influenza dell’Arabia Saudita, storico nemico degli ayatollah. «Sono come un serpente velenoso cui bisogna tagliar la testa», li definiva qualche tempo fa il re Abdallah, rivolgendosi al presidente Obama. Se qualcuno a Washington nutriva dei dubbi, ecco la prova che mancava, un bel complotto iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti. Un piano perfetto, nonostante quel pasticcione di Arbabsiar.