Caro direttore,
ho seguito dall’inizio alla fine la serie di articoli di Roberto I. Zanini sul tema “Cercando la fede”. Le puntate che più mi hanno interessato sono quelle del 24 novembre 2019 e del 15 marzo 2020, riguardanti l’incontro-intervista con fratel Cosimo, il mistico calabrese di Placanica e col maestro iconografo di Roma Ivan Polverari. Del primo articolo, oltre al contenuto, mi ha colpito anche la resa avvincente della testimonianza, sostenuta senz’altro dallo Spirito come fratel Cosimo aveva preannunciato rifiutando la registrazione dell’intervista. Del secondo mi ha colpito l’argomento. L’incipit, per esempio, mi ricorda quello splendido dei “Racconti di un pellegrino russo” per la capacità di racchiudere in sé tutto quello che viene detto in seguito, in particolare dove si dice: «Le icone generano in noi la nostalgia di eternità». Mi convince meno, invece, il pensiero del maestro là dove dice che le icone non hanno bisogno di spiegazione. Che senso avrebbe allora, fra gli innumerevoli scritti sull’argomento, quello classico di Leonid Uspenkij “La teologia dell’icona”? I due articoli mi hanno colpito, inoltre, perché mostrano come Dio non disdegni l’incontro diretto, sensibile con le persone, senza mediazioni. Lo dice chiaramente fratel Cosimo: «La fede, quella vera, passa per i sentimenti, per la relazione d’amore, che sono cose che appartengono a tutti, non solo a chi è istruito... La fede non è la teoria delle belle parole... Dio si fa toccare, si fa sentire... Questo è il Dio che ci cambia... Non il dio vuoto, ideologico, distante di tanti libri, di tante celebrazioni...». Lo dice anche il maestro Polverari: «Quello delle icone è il linguaggio dello sguardo. È un incontro fra cuori che non ha bisogno di parole... senza mediazioni, un flusso diretto col divino». In ultimo vorrei elogiare l’autore per il coraggio nel fare una ritrattazione di quanto aveva scritto il 12 ottobre 2016 in un articolo in cui si leggeva che le icone non si dipingono ma si scrivono. Concetto che aveva ribadito rispondendo su “Avvenire” a una mia specifica obiezione. Al maestro Polverari chiede esplicitamente se le icone si dipingono o si scrivono e lui risponde: «Qui si potrebbe aprire un dibattito ma in realtà potremmo considerarlo un semplice equivoco che nasce da un errore di traduzione dal russo. In quella lingua la parola utilizzata può significare indifferentemente scrivere e dipingere. Nella nostra lingua la parola specifica è dipingere. Io dipingo icone».
Maurizio Volpe
Gentile e caro lettore, è la seconda volta che intercorre – complice il direttore – corrispondenza fra noi e constato di nuovo la comunanza di visioni e di letture. Come dimenticare l’incipit del primo dei racconti del Pellegrino russo: «Per grazia di Dio sono un uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per condizioni un pellegrino senza terra e della specie più misera...». Come dimenticarlo e come non riconoscersi in esso. Ecco, l’intento della serie di interviste “Cercando la fede” era, ed è (perché contiamo di riprendere appena possibile, anche considerando l’interesse di persone come lei) quello di andare pellegrinando per provare a dare risposta alla stessa domanda del Pellegrino russo. Lui cercava di capire come tradurre in pratica l’invito di Paolo a pregare incessantemente (1Ts 5,17) noi cerchiamo di raccontare le persone e i modi in cui quel pregare incessante si è tradotto in stile di vita, cioè, come diceva fratel Cosimo, non una teoria fatta di belle parole, ma qualcosa che ti fa toccare e sentire Dio e che, necessariamente, ti cambia la vita. Perché così pellegrinando la vita cambia davvero e si scoprono cose nuove e si capisce che tante volte ci si attacca a parole e significati con una dedizione quanto meno inutile. E se prima sembrava intelligente, erudito e teologicamente corretto il concetto dello “scrivere icone” ecco che si incontra uno come il maestro Polverari, che con asciutta semplicità ti spiega che si tratta di un “non problema” e che il dire “dipingere icone” è semplicemente più consono alla nostra lingua. Tutto il resto è sovrastruttura, perché l’icona ci parla di Dio, anzi, è Dio che ci parla attraverso l’icona e il suo linguaggio non usa le parole dei dotti ma quelle dei semplici, non nasconde significati in segni arcani, ma li mostra tutti nella luce e nell’immediatezza di un dialogo fra sguardi che non ha bisogno di parole, ma è detto per intero in ciò che l’immagine è capace di far affiorare dal cuore. La fede, quella vera, come dice fratel Cosimo, è una relazione d’amore, passa per i sentimenti. Questo intendeva Polverari, senza peraltro negare, come del resto fratel Cosimo e come il Pellegrino russo, la ricchezza e la grandezza della ricerca teologica e iconologica nei secoli. Tutto questo per dire che il suo interesse per quelle interviste, se certamente lusinga, soprattutto spinge a proseguire nel lavoro infondendo nuovo coraggio... e qui serve davvero. Grazie.