Ci sono strette di mano che fanno la storia. O la ricominciano. Ci fu quella che Foster Dulles, segretario di Stato americano, rifiutò a Ginevra nel 1954 al premier cinese Zhou Enlai e quella con lo stesso Zhou Enlai con cui Kissinger nel 1971 cancellò lo sgarbo di oltre venticinque anni prima. Non sappiamo se anche la calorosa stretta di mano che ha avviato il primo incontro da presidenti in presenza tra Biden e Xi Jinping passerà alla storia, ma di certo ribalta vistosamente l’immagine dello scontro plateale tra i massimi rappresentanti della politica estera americana e cinese nel marzo 2021 ad Anchorage. Con un incontro durato più di tre ore, i due leader hanno voluto mandare il messaggio che il dialogo tra Cina e Stati Uniti d’America riparte dopo un lungo congelamento.
È una buona notizia per i rapporti tra i due paesi e per la pace nel mondo. I due leader hanno potuto permettersi un messaggio distensivo, malgrado il sentimento anticinese sia prevalente negli Usa così come lo è quello antiamericano in Cina, e benché molti problemi restino aperti. Sono infatti usciti politicamente rafforzati da eventi recenti: il cinese dal XX Congresso del Partito comunista e l’americano dalle elezioni di Midterm. La volontà di apertura della Cina verso gli Usa era nota: l’ha manifestata Xi Jinping immediatamente dopo la fine del Congresso. Meno scontato era invece l’atteggiamento di Biden: la recente Strategia per la sicurezza nazionale ha individuato nella Cina «la sfida geopolitica più importante». Ma il presidente americano ha aperto l’incontro dicendo «dobbiamo evitare che la nostra competizione possa sfociare in un conflitto».
Xi Jinping ha auspicato qualcosa di più e cioè che Usa e Cina tornino a cooperare nell’interesse reciproco. I due presidenti hanno anche concordato sulla ripresa della collaborazione riguardo al cambiamento climatico, congelata dopo la crisi di Taiwan dell’agosto scorso, mentre sul futuro dell’isola ognuno è rimasto sulle proprie posizioni, com’era prevedibile (ma Biden ha detto di non ritenere imminente un attacco cinese a Taiwan). Infine, last but not least, la notizia che Blinken andrà a Pechino. È presto per dirlo, ma potrebbe essere l’inizio di un’uscita dall’incubo di una nuova guerra fredda. Ne parlò per la prima volta l’allora vicepresidente Usa Mike Pence nel 2018 e da allora questa minaccia è riemersa molte volte. La guerra tra Russia e Ucraina appare un primo possibile test in questo senso. I due leader hanno concordato solennemente sul fatto che non si debbano usare le armi nucleari in Ucraina. E il recente “consiglio” di Sullivan a Zelensky perché l’Ucraina avanzi proposte realiste va nella direzione di un negoziato.
Da parte cinese, far trapelare durante l’incontro la notizia che Vladimir Putin «non disse la verità » al leader di Pechino sulla guerra in Ucraina è una forma di pressione su Mosca. A Biden, Xi Jinping non si è solo detto «estremamente preoccupato» per «una crisi globale e composita come quella in Ucraina», ma ha anche esposto tre princìpi generali per la pace nel mondo che vanno oltre questa crisi: «Primo, conflitti e guerre non producono vincitori; secondo, non c’è soluzione semplice a una questione complessa; e terzo, lo scontro tra i principali Paesi deve essere evitato». Insomma, i segnali di una collaborazione tra Usa e Cina per la pace in Ucraina non mancano.
Il gradualissimo percorso compiuto dalla Cina dall’«amicizia senza limiti» con la Russia proclamata il 4 febbraio scorso all’attuale contrarietà alla guerra di Putin contiene una lezione importante: non sottovalutare mai i quasi impercettibili cambiamenti di rotta con cui Pechino compie svolte anche profonde dando però l’impressione di continuare sempre sulla stessa strada. C’è qui un problema cruciale. La fobia anticinese in Occidente – speculare a quella antiamericana in Cina – acuita dalla pandemia ha seriamente ostacolato la capacità di comprensione di ciò che avviene dietro la cortina di bambù. Ciò rappresenta un grave pericolo, qualunque politica si voglia attuare.
La distensione (se ci sarà) tra Usa e Cina, importante per tutto il mondo, interessa in particolare l’Europa, così come la interessò molto quella tra i due blocchi durante la “vecchia” guerra fredda. I Paesi europei infatti – che pagano il prezzo più alto per sostenere l’Ucraina – non possono permettersi di separare totalmente le loro economie da quella cinese – il cosiddetto decoupling. Ed è estraneo al Dna dell’Europa – lo testimonia la sua storia secolare – uno “scontro di civiltà” tra grandi blocchi continentali. E l’Italia? È auspicabile che non si isoli dal resto dell’Europa proprio mentre sembrano possibili passi di pace tra Russia e Ucraina e che si faccia ispirare dal suo antico e saggio atlantismo per inserirsi in una nuova stagione di dialogo tra Oriente e Occidente.