C’era una volta il processo di pace israelo-palestinese. Certo non in salute, anzi: per molti era poco più di un cadavere, dopo vent’anni di fallimenti seguiti al Trattato di Oslo e all’assassinio di Rabin. Ma rimaneva caparbiamente una delle questioni centrali del Medio Oriente, richiamata da svogliati governanti arabi e con cui tutti i presidenti statunitensi e i rappresentanti della (Dis)Unione Europea finivano prima o poi con il cimentarsi. Oggi, invece, fra le innumerevoli vittime dello Stato islamico (Is) e della follia settaria che dilaga nel Levante, va inserita anche la speranza di un compromesso fra palestinesi e israeliani. La catastrofe umanitaria di Siria e Iraq, le stragi i di civili, la violenza brutale di Is, l’ascesa delle formazioni qaedista, prima fra tutta Jabhat al-Nusra, il dilagare di una guerra intestina all’islam che disarticola tutta l’architettura statuale post coloniale della regione... sono tutte questioni che monopolizzano l’attenzione internazionale. E allora, un problema che si trascina stancamente dal 1948 sembra, allo stesso tempo, non urgente e irrisolvibile. Tanto più che la crisi intestina al mondo arabo e islamico fa tacere chi – spesso in modo strumentale – agitava la questione palestinese e se ne faceva interessato alfiere. L’Iran e Hezbollah, campioni della resistenza alla "entità sionista" e a ogni ipotesi di accordo, sono impegnati allo spasimo a impedire il collasso del loro alleato siriano. Mentre Turchia, Arabia Saudita e Qatar guardano solo alla partita nel Levante e dedicano ogni energia per sostenere i peggiori fra i nemici di Assad. Ma gli stessi jihadisti, vuoi di rito strettamente qaedista come Jabhat al-Nusra, vuoi post-qaedisti come l’Is, sono del tutto disinteressati alla questione palestinese. Nonostante i loro proclami per la conquista di Gerusalemme e Roma, sono attentissimi a evitare ogni scontro o motivo di ostilità con Israele. Tanto più che quest’ultimo è arrivato al punto di fornire qualche forma di assistenza ai combattenti qaedisti impegnati nel Golan, seguendo la logica assurda della destra israeliana che nulla sia peggio di Hezbollah. Così, oggi non si tratta più di discutere sul futuro di Gerusalemme, dei profughi o sul 5-10% di territorio contestato. Perché le due parti non sembrano mai essere state tanto lontane e disinteressate all’idea stessa di un accordo. I palestinesi fragili e divisi, con la stessa Hamas indebolita dallo scontro fra sciiti e sunniti e da quello fra Fratelli Musulmani e salafiti, mentre si rafforzano nuove formazioni islamiste ancora più radicali e il presidente moderato Abu Mazen sembra pressoché irrilevante. Gli israeliani soggiogati dal populismo del primo ministro Netanyahu, il quale ha costruito le proprie fortune politiche parlando alla "pancia" di Israele, rafforzandone le paure e le ossessioni. E mentre il partito laburista rimane afono sulla questione, dopo aver perso la scommessa "pace e sicurezza in cambio di territori", si rafforzano i partiti religiosi, che guardano alla Palestina esclusivamente attraverso il prisma dell’Israele biblico. Nel mezzo gli arabi cristiani di Israele e di Palestina intrappolati fra queste logiche massimaliste: stretti fra la destra religiosa ebraica e la deriva salafita nel mondo sunnita, guardano con crescente preoccupazione all’apocalisse che si è abbattuta sulle chiese cristiane orientali. Dinanzi al settarismo violento ed estremista, la ripresa del dialogo auspicata da Abu Mazen e dalla componente moderata dei palestinesi sembra a essi l’unica strada per impedire il dilagare dell’estremismo anche in Palestina. Ma trovano poco conforto in un Israele che punta a capitalizzare – con la miopia di chi guarda solo al breve termine – il tracollo dei proprio nemici.