L’Italia ha bisogno di investire più risorse per contrastare l’inverno demografico. Ma gli incentivi devono essere strutturali, elevati, semplici. E come premio pubblico
La legge di bilancio è approdata in Parlamento con alcune novità per le famiglie, mancando però ancora una volta l’occasione di affrontare in modo strutturale la questione dell’inverno demografico. Il Governo ha stanziato 348 milioni di euro in più per un «assegno universale », proponendo di fatto di trasformare il «bonus bebè» da contributo annuale di 960 euro a benefit mensile: 160 euro per le famiglie con basso Isee (dunque raddoppiato rispetto allo scorso anno), 120 euro per Isee da 7mila a 40mila euro, 80 euro per gli altri. Ovviamente il bonus continua a valere solo un anno. Era una misura insufficiente prima, lo rimane ora. Altri 190 milioni sono poi stati stanziati per i contributi alle spese delle famiglie per gli asili nido.
Ma quale misura sarebbe sufficiente? Forse l’assegno unico? Se si, come dovrà essere congeniato? Una comunità nazionale sostiene fiscalmente le famiglie per due ordini di ragioni: la prima concerne l’equità fiscale. L’articolo 53 della nostra Costituzione stabilisce che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Se due individui hanno lo stesso reddito lordo ma carichi familiari diversi – ad esempio il primo ha tre figli mentre il secondo è single – la loro capacità contributiva differisce e così dovrebbero anche i loro obblighi fiscali. Questo diverso trattamento fiscale si può ottenere in tanti modi e nel nostro ordinamento si utilizzano molti strumenti che includono le detrazioni fiscali, i trasferimenti quali gli assegni familiari e i vari bonus mamma, bebè, asilo, etc. Molte misure, ma affastellate, e ciascuna di scarsa rilevanza economica: la somma di queste in termini di spesa pubblica colloca l’Italia al di sotto della media europea.
Oltre all’equità c’è una ragione di efficienza per investire risorse nelle politiche familiari, ed è quella di incentivare le nascite. Infatti il declino demografico porta con sé molte conseguenze economicamente negative e non deve quindi stupire che molti degli Stati con bassa natalità – ormai sono più di 80 e includono praticamente tutto l’Occidente sviluppato – adottino delle misure che sostengono un trend demografico più stabile. La misura più immediata di intervento è, appunto, la leva fiscale. Se l’obiettivo è aumentare la natalità si potrebbe quindi in teoria tassare il celibato, come fu fatto negli anni ’30 del secolo scorso, oppure introdurre un incentivo per ogni figlio che nasce, che è una soluzione attualmente adottata da moltissimi Paesi.
La fiducia nel fatto che una misura fiscale di favore possa davvero impattare i tassi di fertilità si fonda però su un’idea un po’ naive. Economisti e politici spesso si illudono che basti rendere più conveniente mettere al mondo dei figli – con un assegno mensile piuttosto che con la promessa di una pensione anticipata per i plurigenitori, come ha proposto l’economista Carlo Cottarelli in questi giorni – per aumentare l’offerta di nuovi nati. Le ricerche più recenti in economia però ci dimostrano che il modo in cui le persone reagiscono agli incentivi economici è molto complesso. Due dei tre premi Nobel di quest’anno, Esther Duflo e Abhijit Banerjee, hanno ad esempio evidenziato (qui: nyti. ms/343d2C9) come le persone in media ritengano gli altri sensibili agli incentivi economici, ma non se stessi, finendo cosi per sovrastimare l’efficacia degli incentivi economici. Non solo l’effetto può essere inferiore alle attese, ma a volte può anche condurre a dei risultati contrari alle inteznioni iniziali.
Ad esempio, in un famoso esperimento condotto vent’anni anni fa da Ariel Gneezy e Aldo Rustichini ( bit.ly/2qym2km) in cui delle modiche multe venivano introdotte per i genitori che arrivavano tardi a ritirare i figli dall’asilo nido si è infatti scoperto che questo (dis)incentivo economico finiva per aumentare i ritardi invece che farli diminuire: il genitore che prima si sentiva in dovere di arrivare il più possibile in orario, dopo l’introduzione delle multe si è di fatto vista riconosciuta la possibilità di 'acquistare' il diritto di arrivare in ritardo. Che non basti 'pagare' le famiglie perché facciano più figli è leggibile anche nelle statistiche demografiche internazionali. La denatalità è un fenomeno che più o meno violentemente sta colpendo tutti i Paesi sviluppati, con pochissime eccezioni.
Quali sono quindi le lezioni utili per disegnare una buona politica familiare attorno all’assegno unico? Per cominciare, vale la pena ribadire che l’assegno u- nico è prima di tutto una misura di equità verso le famiglie che hanno e vogliono avere dei figli. È giusto porsi come obiettivo quello aumentare le nascite, ma nella consapevolezza che ci vorrà uno sforzo che vada ben oltre l’assegno e che richiederà molti anni per vedere dei risultati. In secondo luogo è bene capire che le persone rispondono agli incentivi economici, ma con lentezza, e solo se ben congegnati. Gli incentivi devono quindi essere: 'strutturali', 'prevedibili', 'salienti', 'premiali'.
'Stabili, perché mettere al mondo un figlio è una decisione che ha un orizzonte temporale lungo una vita e non può quindi essere influenzata da un bonus che vale solo fino alla prossima legge di bilancio. Per questo è fondamentale trovare il più ampio consenso possibile per avviare delle politiche familiari che rimangano il più possibile stabili nel tempo. 'Prevedibili', nel senso che più l’incentivo è semplice ed intellegibile, più le persone possono prevedere la differenza che comporta il riceverlo rispetto al non riceverlo: ec- co perché, anche a parità di spesa totale, un assegno unico che dipende solo dall’età dei figli è molto meglio delle diverse misure oggi vigenti che dipendono da un sacco di variabili quali il reddito, la tipologia di lavoro del genitore, l’Isee, la residenza, e via discorrendo.
Oltre all’equità c’è una ragione di efficienza per sostenere politiche familiari, ed è quella di incentivare le nascite: il declino della popolazione porta con sé conseguenze economicamente negative. Un benefit che diminuisce al crescere del reddito è perdente. L’assegno dovrebbe premiare il contribuito che ogni figlio dà nella direzione del bene comune
Gli incentivi alla natalità devono essere anche 'salienti', nel senso che ricevere l’incentivo deve comportare un effettivo sollievo economico per le famiglie che decidano di mettere al mondo dei figli. Ecco perché non si può accettare come una vittoria uno stanziamento di 348 milioni di Euro. Governo e Parlamento se ne facciano una ragione: le politiche familiari, se fatte bene, sono costose nel breve periodo, ma i costi sociali di una demografia declinante sono ben maggiori. Infine gli incentivi alla natalità devono diventare dei 'premi pubblici' da ricoprire di significati che vanno ben oltre la dimensione economica. Proprio perché la denatalità è ormai un tratto culturale del mondo contemporaneo che gli incentivi economici riescono a correggere solo in parte c’è l’urgente bisogno di riaffermare il valore sociale e la dimensione pubblica della natalità.
Ecco il motivo per cui l’idea di un assegno che diminuisce progressivamente al crescere del reddito risulta perdente: inevitabilmente verrebbe percepito solo come una misura di contrasto alla povertà, peraltro inadeguata allo scopo. No, il messaggio che deve passare è che l’assegno- figli premia il contribuito fondamentale che ogni figlio – di famiglia povera o di famiglia benestante – dà nella direzione del bene comune. Solo quando la società tornerà a pensare e a parlare della natalità come di un fatto di rilevanza sociale, che interessa tutti e non come ad un fatto privato, allora le famiglie torneranno con fiducia a progettare un futuro pieno di bambini. Quante volte ci sembra di leggere nello sguardo degli altri il pensiero: «Hai voluto i figli? Adesso sono fatti tuoi ». Ecco, crediamo che le cose cambieranno quando finalmente torneremo collettivamente a pensare che i figli degli altri sono anche fatti nostri.