Caro direttore,
le Giornate di Bertinoro Cper l’Economia Civile promosse da Aiccon sono giunte alla XI edizione, un percorso lungo che nel corso degli anni ha prodotto riflessioni e categorie di pensiero utili a perseguire lo sviluppo dentro una prospettiva umana integrale. La riflessione oggetto dell’edizione che si svolgerà l’11 e 12 ottobre, metterà al centro la trasformazione dell’esistente, proponendo un paradigma di sviluppo basato su una visione di prosperità da perseguire secondo un metodo inclusivo. L’Economia Civile ha, infatti, la forza per contribuire al disegno di una società che sappia trasformare la quantità sempre maggiore di risorse umane escluse dal processo di produzione, in una risorsa capace di agire per migliorare la qualità della vita. La strada da fare è ancora lunga e irta di ostacoli, ma non ha alternative se si vuole davvero porre mano alla trasformazione dell’attuale modello di sviluppo, ormai non più sostenibile.
Perseguire un paradigma che tenda alla prosperità non è appena un richiamo alla solidarietà, ma soprattutto un forte stimolo alla creazione di valore sociale o, come ripete spesso Mauro Magatti, alla generatività. Un atto questo che richiede il contributo di una pluralità di soggetti, in primis quelli del Terzo settore e della cooperazione, chiamati a dilatare la biodiversità degli attori in campo, nutrendo beni e servizi con dosi massicce di relazionalità e di orientamento all’interesse generale. L’Italia è un Paese ricchissimo di reti, legami, economie, luoghi e opere nate da percorsi comunitari e associativi aventi un orizzonte pubblico: le oltre 340mila organizzazioni non profit, i quasi 6 milioni di volontari e il milione di occupati sono solo un parte di quel tessuto sociale che ha il suo valore espressivo ed emergente non tanto nell’essere una stampella della Pubblica Amministrazione o un meccanismo riparatore del mercato, bensì nel promuovere 'valore' in maniera relazionale, producendo così un 'mutuo beneficio' a tutti gli attori in campo.
L’economia, come l’umanità, fiorisce dentro una dimensione relazionale dove al centro risiedono comportamenti e norme sociali, e non solo un governo e un mercato efficienti. Ha scritto il sociologo Ralf Dahrendorf: «La democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile. La caratteristica essenziale della società aperta è che le nostre vite si svolgono in 'associazioni', intese in senso lato, che stanno al di fuori della portata dello Stato». In questo senso – come ricorda ancora Dahrendorf – «la libertà ha bisogno della società civile, alla quale chiede spazi di azione che né il mercato né lo Stato sono in grado di assicurare».
Abbiamo certamente bisogno di dilatare il perimetro del pubblico e della partecipazione, ma non a discapito «del riconoscersi e del farsi comunità». Un percorso questo che ha un metodo peculiare: quello dell’inclusione. Il metodo inclusivo, in maniera contro-intuitiva, ci suggerisce che per generare sviluppo occorre aprirsi («l’imprevisto è la sola speranza», dice Eugenio Montale): per includere è necessario prendersi il rischio di incontrare la diversità, l’alterità e renderla parte attiva di un percorso comune. La dimensione inclusiva, come modalità di azione per perseguire la prosperità, chiede alle istituzioni tutte un profondo ripensamento dei propri modelli organizzativi, un’azione di change management (gestione del cambiamento) non più rinviabile, non solo per avviare un’irreversibile transizione tecnologica, ma anche per catalizzare competenze, motivazioni e risorse capaci di fare la differenza. Tale riflessione risulterà tanto più utile e praticabile se si avrà la capacità di ascoltare chi già sta praticando il futuro (i giovani e chi alimenta processi d’innovazione sociale) proponendo progetti e percorsi che forniscono delle prime risposte, nella consapevolezza che, piuttosto che proporre un’immagine predefinita di 'ciò che sarà', sia più ragionevole cercare di individuare quelle variabili che sicuramente ne determineranno i tratti salienti. La costruzione del futuro è un atto del presente, è un già e non ancora che si nutre di aspirazioni e di azioni tese a un cambiamento desiderato.
Ecco, allora, che qualsiasi azione di world making (costruzione del futuro) ci rilancia verso la madre di tutte le sfide ossia il ripensamento radicale della natura delle istituzioni: se il metodo per generare valore postula l’inclusione, ciò significa che la più grande sfida è quella di ridisegnare le istituzioni in senso inclusivo. Non sto parlando solo di quelle del Terzo settore, bensì di quelle economiche, ancora troppo orientate a modelli estrattivi, di quelle pubbliche, spesso condizionate da una superficiale visione del consenso e/o orientate a una efficienza redistributiva che disincentiva la partecipazione e il farsi comunità e di quelle finanziarie, ancora troppo impegnate a sostenere una ricchezza disarcionata da lavoro e territorio.
Ridisegnare le istituzioni è una responsabilità di tutti, implica un’azione corale e una spinta che agisca congiuntamente su tre livelli: dal basso attraverso un forte impegno dei cittadini e dei consumatori; dall’alto utilizzando nuove metriche (sostenibili) per misurare la qualità delle politiche per lo sviluppo e, infine, attraverso una nuova azione di re-intermediazione che i 'corpi intermedi' devono fare per rappresentare istanze profondamente cambiate.
La prospettiva della prosperità inclusiva chiede a gran voce un futuro fondato su un nuovo ordine sociale che superi le secche della dicotomia Stato-Mercato, rimettendo al centro la dimensione 'terza' della Società, chiamata oggi a farsi sempre più impresa, servizio, luogo e politica.
Economista, direttore del Centro studi Aiccon sull’Economia Civile, Università di Bologna